All’armi siam fascisti

Era il 1960 quando Lino Del Fra, Cecilia Mangini e Lino Miccichè unirono forze, idealità e passione civile per raccontare all’Italia, e al mondo intero, cosa fu veramente il Fascismo.

Le strade per arrivare ad All’armi siam fascisti, documentario insolito, spiazzante, unico nel suo genere, sono tante.Può essere un amico che lo consiglia caldamente, può essere uno zapping fortunato in un noioso pomeriggio di pioggia, o ancora una ricerca nel mare magnum del web che costringa a fermarsi perché ci si accorge di avere davanti agli occhi qualcosa di insolito.

Ma si può arrivare anche partendo da Francesco Miccichè, cineasta che nel 2013 costruiva intorno al ricordo del padre Lino, morto dieci anni prima, un racconto denso, di chiarezza cristallina, una di quelle rare biografie che dell’uomo rivelano la sostanza più autentica con il vigore della sintesi e l’amorevole attenzione dell’affetto filiale.

Visto alla sua uscita, verifico con amarezza che il video su you tube è stato privato di sonoro. Irreperibile negli archivi delle Teche Rai, inesistente su Amazon dvd, sparito da Rai Play, non resta che appellarsi a qualche tribunale internazionale dei diritti dell’uomo comune, chissà.Comunque auguro a chi lo troverà una buona visione, merita.

Lino Miccichè, mio padre. Una visione del mondo ci porta ben presto, a dodici minuti dall’inizio, a questa tappa centrale nella storia di quel grande critico e storico del cinema che fu Miccichè. C’era una necessità che premeva, un’Italia da capire andando a ritroso, un rimosso che rischiava di impantanarsi definitivamente nel conformismo acquiescente delle masse e nella protervia dei nuovi poteri forti.

Bisognava che gli ”intellettuali”, parola tanto vituperata e non sempre a torto, si dimostrassero degni del loro ruolo e riprendessero a percorrere le strade dell’impegno e della conoscenza di cui far partecipe la comunità degli uomini, con onestà e fermezza di giudizio, mai dimentichi delle parole di Elias Canetti, acuto e profetico testimone del secolo:

“Da qualunque parte lo si consideri, il comando nella sua forma compatta, compiuta, che oggi gli é propria dopo secoli di storia, è divenuto l’elemento singolo più pericoloso della vita collettiva degli uomini. Bisogna avere il coraggio di opporvisi e di spezzare la sua sovranità. Si devono trovare mezzi e vie per liberare da esso la maggior parte degli uomini. Non gli si può permettere altro che di scalfire la pelle. Le sue spine devono diventare solo più lappole di cui ci si sbarazza con un gesto”.

(Massa e potere,ed. Adelphi, p. 403)

Francesco ripercorre la vita del padre come avrebbe fatto lui stesso, come farebbe chiunque, arrivato al capolinea di una vita intensa e ben spesa, voglia raccogliere intorno a sè le memorie più importanti.Mettere a fuoco i momenti che più hanno contato nella vita del padre porta dunque Francesco a parlare di quest’opera di ricerca storica sul Fascismo affidata ai tre cineasti dalla direzione dell’Avanti in quegli anni memorabili per l’Italia del dopoguerra, alle soglie del boom economico.

Era in carica il governo Tambroni, salito al potere con l’appoggio esterno del Movimento Sociale, il Partito Socialista temeva il ritorno degli eredi del fascismo e le prime prove da regista di Miccichè in quegli anni (dieci documentari) erano già tutte all’insegna dell’impegno sociale.

C’era la volontà di essere partigiano all’estremo, cioè dire chiaramente allo spettatore: io ti racconto questo da questo punto di vista con questa precisa intenzione di documentarti qualcosa che non ti deve lasciare tranquillo” ricorda Cecilia Mangini in una delle tante interviste che corredano il docu-film su Miccichè.

Bisogna essere schierati, puntare forti i piedi contro rimozioni e comode pacificazioni postume, il Fascismo, soprattutto le sue origini, le dinamiche sociali, economiche e politiche che sempre lo supportano e alimentano, andava spiegato, raccontato, svelato, soprattutto ai giovani, “… c’era la tendenza a pensarlo – dice Marco Bellocchiocome qualcosa di appartenente al passato remoto”.

Difficoltà estrema nel reperire il materiale di repertorio, questa è la prima sottolineatura.

L’Istituto Luce li caccia, ordine di Andreotti, il Fascismo dev’essere tabù, non bisogna parlarne. Di fronte alla scandalosa pretestuosità di questa motivazione i tre espatriano, archivi storici pieni di riprese sono ovunque in Europa, basta aver l’animo da pionieri e non cedere di fronte a nulla.

L’ironia di Miccichè nelle lettere in cui racconta il suo peregrinare per la Germania dell’Est in attesa di essere ricevuto dalle autorità (lui socialista, mica un fascista!) rende leggera una materia che non perde per questo la sua gravità.

Nel 1960 il materiale è raccolto e montato, manca il testo e per questo si ricorre a Franco Fortini, non più socialista ma amico di Lombardi.

Bellissimo il ricordo di Cecilia Mangini:

Andammo a prenderlo alla stazione, era un grumo di riservatezza, di timore, io ho avuto l’impressione che sarebbe voluto molto volentieri rientrare nel treno. Siamo andati in moviola, lui sempre così taciturno e chiuso in sé stesso, comincia a vedere il film…

Scorre la prima sequenza, soldati e civili morti, Croce Rossa al lavoro, un bianco e nero fumoso, una caligine da ultima bolgia dell’Inferno. La voce esterna commenta: “Queste immagini compaiono per la prima volta su di uno schermo italiano…”.

Cecilia continua:

Ad un certo punto lo guardo, siamo alla guerra di Spagna e lui piange, un pianto silenzioso, le lacrime che gli scorrono giù lente lente e io che dico: E’ fatta! farà il testo, perché ci credeva molto. In realtà ha fatto un testo splendido, è la seconda anima del film.”

Proiettato in agosto alla Mostra del Cinema di Venezia, il successo è immediato e i commenti di Pasolini e Moravia riassumono il pensiero di tutti.

Il più bel documentario mai visto sul fascismo per forma, montaggio, una visione del mondo segnata dall’influenza del grande cinema russo degli anni Venti.”

Scorrono alcune immagini esemplari, si ricordano le vicissitudini che la censura e gli organi istituzionali imponevano, “una serie infinita di tagli – racconta il regista – in una trattativa defatigante con il ministro. Paradossalmente era in gioco più il ruolo del Vaticano nel Fascismo che non il Fascismo stesso, e dunque via i preti che sfilano sotto il balcone di Palazzo Venezia, via i preti dall’Altare della Patria che salutano romanamente, via i cardinali che insieme ai federali guidano i cortei di chi va a votare il Sì a Mussolini nel plebiscito del 1929.”

“Ci irrigidiamo – la voce è ora quella di Linonon si deve toccare un solo fotogramma”.

La pellicola fu sbloccata e nel 1962 distribuita nei cineclub, il suo peso fu enorme, simbolico come mai un film prima di allora, nell’incontro delle forze politiche che misero insieme il primo centrosinistra. Messa in circolazione non ha mai finito di far rabbrividire, commuovere, indignare. La sinergia fra immagini e testo è totale, si resta attoniti, impietriti, e tornano le parole che Miccichè dice all’inizio della sua biografia: “Credo veramente che vedere un film sia vivere”.

Per vedere un film così straordinario bisogna allora avere un viatico fuori del comune, e sono le parole di Franco Fortini accompagnate dalla musica di Egisto Macchi che aprono la sezione dal titolo:

Fascismo, l’organizzazione armata della violenza capitalistica

Sulle piazze delle città, nelle vie dei vecchi borghi,

ecco gli importanti, i dignitari, i fiduciari,

i potenti, le eccellenze, gli eminenti,

gli autorevoli, gli onorevoli, i notabili,

le autorità, i curati, i podestà,

gli uomini dell’autorizzazione, dell’intimidazione,

dell’unzione e della raccomandazione;

ecco quelli che fanno il prezzo del grano e delle opinioni,

che hanno in pugno il mercato del lavoro e quello delle coscienze,

e ci sono quelli che aprono gli sportelli,

baciano la mano a “voscenza”, e ringraziano sempre

perché non sanno mai i propri diritti.

Eccoli dire di sì:

di sì

perché lo fanno tutti,

di sì

perché lo ha detto monsignor vescovo

e il commendatore che ha studiato,

di sì

perché hanno quattro creature,

di sì

perché bisogna far carriera,

di sì

perché non vogliamo più essere morti di fame,

di sì

perché ho un credito,

di sì

perché ho un debito,

di sì

perché ci credo,

di sì

perché non ci credo.

Perché tanto nulla conta.

Perché io non conto nulla…

di sì

perché non ho più compagni.

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Qui una clip del film, purtroppo non più in edizione integrale su canali facilmente reperibili.Ma esiste in dvd, niente paura!

All’armi siam fascisti

Italia, 1961 durata: 112′

soggetto: Lino Del Fra, Cecilia Mangini, Lino Miccichè

sceneggiatura: Lino Del Fra, Giuseppe Ferrara, Cecilia Mangini, Lino Miccichè

testo: Franco Fortini

musica: Egisto Macchi

montaggio: Giorgio Urschitz

voce: Giancarlo Sbragia, Emilio Cigoli, Nando Gazzolo

 

 

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Le immagini presenti nell’articolo appartengono ai rispettivi proprietari e sono utilizzate al solo scopo di corredare il testo.

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