All’ovest niente di nuovo di Lewis Milestone

“La storia qui raccontata non è un atto di accusa, nè una confessione. Tantomeno si tratta di un’avventura. Per quanti l’hanno vista in faccia, la morte non è un’avventura. Molto più semplicemente abbiamo solo cercato di raccontare la storia di giovani vite che, pur sopravvissute alle bombe, sono rimaste profondamente segnate dagli orrori della guerra.”

La didascalia scorre in apertura, crea disagio e attesa.

Germania 1915: nella vecchia aula di liceo entrano a ondate dalle due finestre rumori di strada, sovrastano la voce del prof. che ha appena scritto alla lavagna l’incipit dell’Odissea:

L’uomo dal multiforme ingegno raccontami, o Musa,

che a lungo errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia;

di molti uomini le città vide e conobbe la mente,

molti dolori patí in cuore sul mare,

lottando per la sua vita e il ritorno dei suoi…

Partono le truppe per il fronte, si lanciano fiori e cuori, volontari si offrono, bandiere sventolano, trambusto di gente, strepito di ruote, petti superbi d’orgoglio patriottico si gonfiano aspettando medaglie, la voce torna al prof., piena, vibrante, stentorea, gli alunni lo guardano in silenzio:

E qual è il compito vostro in questo frangente? Colpire con tutta la vostra forza, fare uso di ogni oncia di energia per ottenere la vittoria prima della fine della guerra.

È con molta riluttanza che ritorno su questo argomento. Voi siete la vita della patria, voi ragazzi siete gli uomini di acciaio della Germania, siete gli allegri eroi che respingeranno il nemico quando sarete chiamati a farlo. Non è mio compito l’incitarvi perché ognuno di voi si eriga a difensore della sua patria, ma mi chiedo se tale idea vi è mai balenata in mente. So che in una delle scuole gli allievi sono scattati in piedi per andare ad arruolarsi in massa, e vi confesso che se tale sublime gesto dovesse ripetersi qui, io ne sarei profondamente orgoglioso.

Forse alcuni diranno che voi non potete ancora partire, che siete troppo giovani, che avete una casa, una madre, un padre, che non dovreste essere strappati a loro.

Ma i vostri padri sono forse così dimentichi della loro autorità paterna da lasciare che perisca questa piuttosto che voi? Sono le vostre madri così deboli da non poter mandare un figlio a difendere la terra che ha dato loro la vita? Ma ora la patria ci chiama, la patria ha bisogno di soldati, i personali interessi devono essere messi da parte pel grande sacrificio per la nostra patria.

Questo è un inizio glorioso per la vostra vita, il campo dell’onore vi chiama, perché stiamo qui?

La ripresa si sposta su facce di piccoli uomini che si esaltano, libri e quaderni che volano, un’aula che si svuota al grido di “non più libri!”, il carrello scorre rapidamente all’indietro, ci si illude che almeno uno di loro sia rimasto seduto al suo banco. Nessuno.

La seconda compagnia in quattro anni è decimata, l’ultimo è Paul, voce narrante e occhio critico.

(Paul è lo stesso nome che Edgar Reitz darà al suo reduce dal fronte occidentale nel ’19 in Heimat, giovane carico di incubi e incapace ormai di vivere con l’innocenza di un tempo).

Il ritorno a casa in licenza temporanea dopo tre anni di Paul Baumer, in visita alla stessa classe, con lo stesso prof. e facce quasi di bambini ai banchi (e lui aveva la loro stessa età, quando partì) è uno dei vertici di un film che tocca l’apice in tanti momenti e per tante ragioni.

C’è un capolavoro di logica argomentativa nelle parole di Paul al prof. e alla classe, mentre accusa il potere e denuncia le sue mistificazioni.

La patria non vuole morti, bisogna vivere, e dirlo nel 1930 non era così scontato.

I nazisti boicottarono la prima del film a Berlino lanciando topi in platea, il fascismo lo proibì in Italia dove fu proiettato soltanto nel 1956 in una versione censurata, ovunque le polemiche infuriarono e tanti cuori s’indignarono.

Non fu piacevole vedere in lunghi piani sequenza le dirette dal fronte, sentir martellare obici per minuti e minuti ed esplodere granate da tapparsi le orecchie, veder morire adolescenti dal viso dissanguato e gambe amputate, padri di famiglia che a casa avevano campi da arare e crepavano in una buca scavata dalle bombe.

E non fu carino nemmeno proiettare la diretta della vita di trincea. Perché dire in giro come si moriva di fame e di sete, e come si ammazzavano i topi quando arrivavano all’assalto e come s’impazziva a sentir urlare il compagno vicino?

Perché far sapere che lì gli uomini diventavano talpe o vermi della terra, lì mangiavano, si dissetavano, defecavano, dormivano e morivano, e poteva capitare di non farcela più e correre come pazzi verso il reticolato dietro il quale c’era la “terra di nessuno”, popolata di cadaveri di entrambe le parti e feriti che urlavano il loro dolore inumano fino al dissanguamento.

Oscar come miglior film e miglior regia, All’Ovest niente di nuovo è un’esperienza di profondo umanesimo, un capolavoro senza tempo che raccoglie il meglio di una scuola di cinema che in trent’ anni dalla sua nascita ha creato linguaggio, tecnica, esperienza e li ha messi al servizio dell’arte, sintesi di suono e immagine, una polivisione, per dirla alla Abel Gance, una conquista del genio che, nonostante tutto, deve ancora e sempre occuparsi della guerra, di questo inspiegabile, intramontabile, inutile e indimenticabile modo di vivere tra uomini.

Come allora, sotto le mura di Troia, così ora, chiusi nelle trincee. Uomini e topi.

All’ovest niente di nuovo

titolo originale:All Quiet on the Western Front 

USA, 1930, durata 138’

di Lewis Milestone

con Lew Ayres, Slim Summerville, Louis Wolheim, John Wray, Arnold Lucy

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