Hallucination di Joseph Losey

“La fine dell’innocenza” è il titolo che Jim Healy dà alla sua analisi su Hallucination nel Castoro, edito in occasione del TFF30 per la retrospettiva dedicata a Joseph Losey.

(per la retrospettiva v.http://www.paoladigiuseppe.it/joseph-losey/  )

Titolo quanto mai pertinente per parlare di un film decisamente trascurato, se non addirittura relegato al rango di opera minore, nell’ampia filmografia dell’autore.

L’innocenza tradita è il suo cuore pulsante, e non è solo quella dei nove bambini chiusi dalla nascita nel laboratorio sotterraneo di esperimenti eugenetici lungo il litorale del Dorsetshire, a due passi dalla sonnolenta cittadina di Weymouth, dove pare che il peggio che possa capitare siano le scorribande motociclistiche di King (Oliver Reed) e dei suoi teddy boys.

E’ l’innocenza perduta da un’umanità che si è scoperta capace di crimini inenarrabili, sepolti sotto la coltre rassicurante del quieto vivere quotidiano.

Meglio conosciuto come The Damned (nell’edizione americana These Are the Damned), unica produzione loseyana della casa inglese Hammer Films, girato nel ’61, il film fu messo in circolazione due anni dopo in Europa, quattro negli Stati Uniti. L’uscita quasi contemporanea di due capolavori, Eve e The Servant, contribuì sensibilmente ad oscurarne il successo, rimandandone di decenni la collocazione giusta nella storia di LoseyLo script, senz’altro imperfetto ma non abbastanza da alterarne la forza, sconta il cambio alla sceneggiatura di Ben Barzman, dovuta a dissapori, con Evan Jones e la necessità di riscriverla tutta con il regista durante le riprese, incalzati dal tempo. Eppure, proprio le imperfezioni danno al film quell’aspetto di work in progress fatto di veloci schizzi visionari, montaggio febbrile e audaci movimenti di macchina che ne esaltano l’aspra incompiutezza.

La morte è una presenza costante, un’ipoteca che insegue i personaggi fino a tradursi in realtà nel finale, uno dei più ipnotici dei film di Losey, con quel grido “Aiutateci” dei bambini rinchiusi di nuovo nella grotta/laboratorio, dopo il brevissimo assaggio della luce naturale.

Era il tempo della crisi dei missili a Cuba, lo spettro della guerra atomica non più solo un’ipotesi fantascientifica e il ricordo di Hiroshima e Nagasaki ancora molto vivo.

Losey non era nuovo alla creazione di fantasie ai confini della realtà. Quel verde brillante sulla testa di Peter in The Boy with Green Hair del ’48, qui diventa un ricordo inquietante, si spegne nella splendida fotografia in bianco e nero di Arthur Grant e il pensiero va piuttosto alle mutazioni genetiche e alle alterazioni prodotte dalle radiazioni sul corpo umano, alla Pioggia nera di Imamura Shohei.

C’è un sopra e un sotto, in Hallucination, uno spazio diviso in due strati, una frantumazione speculare del reale.

Sopra, nella tranquilla cittadina portuale, nasce l’amore fra Simon, ricco yankee in vacanza (Macdonald Carey) e la bella Joan (Shirley Anne Field), perfetto esemplare di ragazza anni ’60, in bilico fra bad girl su moto rombante e dolce fanciulla in attesa del principe azzurro.

King, re della banda e fratello semi-psicotico, morbosamente geloso di Joan, li costringe alla fuga sul veloce yacht di lui, e l’approdo li porterà a sconfinare in un mondo sotto la superficie che sembrerebbe fantascientifico se non fosse più reale del reale, con la scoperta dolorosa dei bambini radioattivi, condannati a distruggere ogni essere vivente che entri in contatto con loro.

La dolce vita” è il nome della barca, e dolce sembra la vita di superficie, si canticchia smash, smash, smash da Black Leather Rock sul muretto del lungomare, e nei déhors di poltroncine in vimini vista mare si sorseggia thè e si chiacchiera amabilmente.

Entra ben presto in scena la scultrice Freya, una intensa Viveca Lindfors nella parte di donna libera, ironica e appassionata, ignara di quanto accade sotto la villa sulla scogliera, il suo buen retiro in cui crea inquietanti figure scure simili a ombre, involucri umani, residui di una privazione dell’esteriorità, disperanti presagi di morte.

Quindi arriva Bernard, Alexander Knox, attore loseyano per eccellenza, figura gelida e determinata a tutto nel suo spietato fondamentalismo. Ripresi in quel locale sul mare sembrano solo una coppia di vieux amants, Losey sa disperdere gli indizi lungo tutto il film, la scoperta agghiacciante della verità deve salire piano alla coscienza, come l’evidenza gelida e frastornante di un fungo atomico che non lascia spiragli alla speranza.

 

Bernard è il cinico e potente commissario governativo preposto all’indottrinamento dei bambini attraverso l’istruzione. Sono i “dammed”, i condannati  a sopravvivere al disastro nucleare prossimo venturo, destinati alla rifondazione di una nuova umanità. Venuti al mondo da genitori colpiti da radiazioni e isolati dalla nascita in quel laboratorio che solo un diaframma di roccia separa dal mare, ignari di tutto ciò che non sia il loro spazio vitale e freddi come morti, l’unico collegamento col mondo è lo schermo da cui Bernard, con aria suadente da buon maestro, provvede ogni giorno ad incrementare il loro stato di sudditanza.

Convinto assertore della perversione ideologica di cui è portatore, pedina anch’egli di un potere occulto che governa da arbitro assoluto i destini del mondo, non ha esitazioni di fronte a nulla, e la sua calma algida è ancor più terrificante della violenza ipercinetica di King e dei suoi teppisti.

Il processo drammatico della composizione, abbastanza statico dal punto di vista temporale ma internamente mosso, è intensificato gradualmente da screziature che irrompono dall’esterno a creare scompensi.

 

Al ridente scenario balneare della prima parte, fatto di panoramiche di ampio respiro e campi lunghi, si sostituisce, nella seconda, una ricerca ossessiva di inquadrature corte, primi piani e piani americani, luoghi bui o illuminati da luci artificiali, spazi impassibili dello stupore impotente di un’umanità condannata da sè stessa alla propria distruzione. Il mare è una presenza costante, superficie calma e invitante dapprima, minacciosa e rumoreggiante sotto la scogliera poi, si presenta come all pervading, elemento inafferrabile in cui si dissolve ogni progetto di vita.

Gli elicotteri scuri che sorvolano a bassa quota lo spazio, nel finale, incombendo sui protagonisti in fuga, King, Simon e Joan, tutti risucchiati dal mare, anticipano di parecchie misure la caccia sadica di Figures in a Landscape (Caccia sadica).

E’ la fuga senza scampo dell’uomo da sè stesso:

“Ciò che volevo dire con Figures in a Landscape è che è inutile cercare di fuggire, perchè nel mondo non c’è alcun luogo in cui rifugiarsi. Se fuggite una forma di oppressione vi ritrovate semplicemente sotto un’altra forma di oppressione” (J. Losey,1970)

Hallucination-The Damned

Gran Bretagna, 1963 durata 87’

di Joseph Losey

con Macdonald Carey, Shirley Anne Field, Oliver Reed, Alexander Knox

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