La terra di Dio di Francis Lee

Su questa terra dove Dio sembra buttare a caso i prodotti della sua creazione, in un angolo dimenticato della rigida campagna inglese, Yorkshire, la solitudine regna sovrana, in una stalla fetida il vitellino nasce morto e in un pub sporco e fumoso si consumano veloci amplessi nel cesso, una nonna lava, stira e cucina senza una goccia di calore nei suoi vitrei occhi chiari e un padre astioso e storpio sembra odiare il figlio, la madre è sparita da tempo perché lì era infelice e Johnny, l’ eroe della storia, ha circa venti anni vissuti al minimo, pura sopravvivenza animale mentre il mondo intorno gira e lui non lo sa.

Difficile crederlo di questi tempi, ma certo da qualche parte accade ancora, sacche di inconsapevolezza, la storia che si attarda, uomini che non sembrano chiedersi perché vivono, ma senz’altro meglio che finire in mare o schiacciati contro i muri sparsi qua e là nel continente.

Johnny è “finocchio”, parola che traduce in italiano non sappiamo quale parola della versione originale qui doppiata.

Lui e Ghoerghe, quello che diventerà ben presto suo partner, la usano scherzosamente, è un modo affettuoso per dire “ti amo”, ma è anche un segno chiaro di come sia vissuta la cosa in quella realtà.

“Zingaro” invece è usato con vero intento dispregiativo e Johnny ne fa uso volentieri, all’inizio, per rivolgersi a Ghoerghe, rumeno, immigrato, lavoratore stagionale sottopagato nelle stalle della zona.

In questo idilliaco scenario agreste nasce l’amore fra i due.

Lo sviluppo è abbastanza sofferto, come si addice a storie così, ma il finale è consolatorio, perfino la nonna e il padre sono contenti, la vita, dopo qualche incomprensione, riprende il suo corso e forse vivranno tutti felici e contenti.

Una bella canzone accompagna i titoli di coda che il regista correda di immagini documentarie sul reale lavoro dei campi da quelle parti, lungo il film la colonna sonora è ben calibrata, tocchi minimi di chitarra o giuste accelerazioni in crescendo quando il sangue ribolle, la fotografia è esperta, fa un buon lavoro su uomini e cose, la regia abbonda in soggettive e primi piani ma è incerta su quando e quanto tagliare perché l’esposizione dei nudi frontali non generi fastidio. A volte indugia troppo.

Resta un problema: la forma del racconto.

Ci sono precedenti illustri a cui Francis Lee alla sua opera prima si ispira, Brokeback Mountain e Tom à la ferme.

Qui i due partners sono inglesi e pastori, ma lo sviluppo del loro rapporto segue lo schema noto: violento, oppositivo, brutale all’inizio, consapevole, dolce e condiviso poi. Nulla di nuovo, dunque, ma non bisogna necessariamente aprire ogni volta nuove strade, quel che conta è percorrerle con scarpe nuove. Per dirla con un grande del mestiere, Lev Vladimirovič Kulešov,bisogna che il film “prenda lo spettatore per la collottola e lo trascini dove vuole il regista”.

Ne La terra di Dio non accade.

Oltre al déja vu non rinvigorito da nuova linfa, tutto troppo prevedibile, c’è la caratterizzazione dei personaggi che manca di spessore, è piatta, appena abbozzata.

Infine lo sviluppo.

Non che dispiaccia che una storia d’amore vada a buon fine, un amore tra due umani è sempre un gran bel vedere, ma è importante che in un film d’impianto così realistico non ci siano virate improponibili verso una specie di favola a lieto fine.

 

Se racconto di formazione dev’ essere, se Johnny esce dal suo guscio chiuso e refrattario ai sentimenti per merito di Ghoerghe, bisogna che la gradualità di processi così complessi sia rispettata all’interno una sintassi che scelga le ellissi giuste e le opportune immersioni sul tema, focalizzi i sottotesti e non li lasci allo stadio embrionale, componga un affresco in cui ogni angolo abbia i suoi colori e non macchie di nero.

Inclusione ed esclusione, solitudine esistenziale e famiglia disfunzionale, sesso e amore, loro confini sociali e incontenibile volontà di affermazione, ma poi anche lavoro precario e immigrazione, società contadina ferma ad uno stadio linguistico quasi pre-verbale e sfruttamento industriale delle risorse naturali.

Troppo per un solo film.

La terra di Dio

titolo originale: God’s Own Country

Gran Bretagna 2017 durata 104’

regia di Francis Lee

con Josh O’Connor, Alec Secareanu, Gemma Jones, Ian Hart, Liam Thomas, Melanie Kilburn, Moey Hassan

 

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