Loveless di Andrey Zvyagintsev

L’art n’a jamais eu pour but le divertissement. Dans quelques cas, paradoxaux… Matisse par exemple a déclaré qu’il était comme un divan moelleux. Mais je pense qu’il faisait le pitre et voulait tromper ceux qui avaient l’intention d’acheter ses tableaux. Si le cinéma est un art, alors, comme pour tout art, il a d’autres fins.

Lesquelles? Exprimer, c’est-à-dire expliquer à soi-même et à tout notre entourage pour quoi l’homme vit. Quel est le sens de la vie. Expliquer la vie, la cause de son apparition sur la terre… Quel sinistre silence… (Andreï Tarkovskji, Le XXe siècle et l’artiste in Art & Connaissance, 2013)

In una conversazione del 1984, in una chiesa di Londra, a margine di una sua retrospettiva, Andreï Tarkovski pronunciò il suo Discorso sull’Apocalisse. Il tema era “La creazione di un film e la responsabilità dell’artista”.

Il regista pose fin dalle prime battute questa affermazione-base sullo statuto del cinema:Exprimer, c’est-à-dire expliquer à soi-même et à tout notre entourage pour quoi l’homme vit”.

La ragion d’essere del cinema, come di tutte le arti, non può essere che parlare dell’uomo e del suo stare al mondo, e la responsabilità è grande.

Citare Tarkovskji parlando di Andrej Zvyagintsev è d’obbligo, soprattutto per quest’opera ultima che, abbandonando i toni millenaristici di Leviathan a favore di un registro medio, ritrova più efficacemente la strada del grande cinema russo e dei suoi precursori.

Premio per la miglior sceneggiatura a Cannes 2014 e Golden Globe 2015 per il miglior film straniero con Leviathan, film leggendario pur nella sua giovane età, ritratto di grande impatto di un mondo in disfacimento che appunto nell’Apocalisse prossima ventura pescava il suo apparato metaforico, in Loveless Zvyagintsev mette da parte le coloriture caricaturali e sarcastiche di quel film, compie una rinuncia opportuna a toni profetici e predicatori e si misura con il nocciolo di tutte le questioni riguardanti l’uomo: la famiglia, il nucleo originario di tutte le reazioni a catena successive, il crogiuolo di quanto di bene e di male si diffonde nel mondo dal momento in cui uno spermatozoo incontra il suo ovulo.

In Loveless le nascite non sono ben accette, benchè continuino a verificarsi per una inspiegabile coazione a ripetere.

Alyosha è nato da dodici anni, né padre né madre l’hanno voluto, è arrivato per caso come per caso arriverà un giorno l’Apocalisse, si sa che i comportamenti umani sono all’80 o forse al 90 per cento dettati da irresponsabilità, criminale non meno che casuale.

Vada come vada, il piccolo Alyosha sparisce dopo le prime sequenze e non lo rivedremo più, benchè la sua presenza aleggi per tutto il film come pena e come colpa nello stesso tempo. 

Se n’ è andato via col suo zainetto un bel mattino, dopo aver pianto, solo, tutta la notte, mentre padre e madre, prossimi al divorzio, litigavano tra cucina e tinello.

Di lui resterà quel nastro bianco e rosso di lavori in corso che aveva raccolto nel bosco e lanciato a mò di fionda sul ramo pieno di neve che si protendeva sul fiume.

Si resta impietriti, non ipnotizzati, l’ipnosi è uscire da sé, Loveless ti ricaccia continuamente dentro, è una presa che non molla su quella parte di noi che cerchiamo di non guardare.

Il mondo intorno è la Russia di Putin e di Kiev, dei massacri di piazza Maidan e dei businessman con appartamenti open air e arredi da Salone Internazionale del Mobile.

E poi c’è una fascia intermedia, quella dei vari Zhenya e Boris, individui sessualmente molto attivi, anaffettivi quanto basta, alle prese con una quotidianità frustrante da cui cercare di affrancarsi è imperativo categorico, molto intenzionati a creare nuovi nuclei familiari, molto capaci (almeno Boris) di rimozioni e riproduzione di analoghi comportamenti (basta vedere come afferra il piccoletto nato dalla nuova compagna e lo butta dentro il box perché non rompa più trotterellando in giro).

Dopo la ricerca vana del povero Alyosha, che occupa tutta la parte centrale del film, lunghi piani sequenza che definire agghiaccianti è usare un blando eufemismo, dopo aver mostrato cosa può diventare una periferia devastata da palazzinari a cui spetta il merito di uno skyline della città dove il grattacielo più basso è di quindici piani, c’è l’after day, breve, istruttivo.

Mentre a Kiev e dintorni si muore di fame, di freddo, di pallottole, così gracchia la tv, la nostra Zhenya, in elegante completo sportivo rosso/rivoluzione, si allena sul tapis roulant frutto del nuovo, ricco ménage, senza figli, almeno per ora. A Boris va un po’ peggio, convivere con la nuova suocera e un piccolo frignante in pochi metri quadri non è il massimo, ma almeno il suo capo cristiano ortodosso ultra conservatore non l’ha licenziato, il divorzio non è ben accetto in ufficio, tanto meno la condizione di single.

Viva la famiglia, dunque, comunque sia, loveless.

Il nastro rosso e bianco veleggerà al vento ancora per molto, così ci promette l’ultima immagine prima dello schermo nero.

Quel sinistre silence…

Loveless

titolo originale: Nelyubov

Russia Francia 2017 durata 128’

regia di Andrey Zvyagintsev

con Maryana Spivak, Aleksey Rozin, Matvey Novikov, Marina Vasilyeva, Andris Keiss

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