Mektoub, My Love: Canto Uno di Abdellatif Kechiche

La blessure, la vraie, romanzo del 2011 di François Bégaudeau, insegnante, romanziere, cosceneggiatore e interprete per Entre Le Murs di Laurent Cantet, è il testo di riferimento di Mektoub, My Love: Canto Uno.

Kechiche (Cous Cous La vie d’ Adele) lo presenta a Venezia74 adattandolo a sua immagine e somiglianza e confezionando un film fluviale, eccessivo, debordante, che trasuda suoni, luce, sorrisi, lacrime, acquamarina e tequila, placenta e culi.

Sì, culi, la parola è quella, come definirli altrimenti? E’ il particolare anatomico femminile più presente sulla scena, un feticcio millenario che Kechiche assume in proprio con amore e ironia, ben sapendo quanta esca stia dando a critiche negative e seguaci adoranti.

Ma, a parte i culi, cos’ha questo film che riesce a tenere inchiodati tre ore davanti allo schermo?

Amin, il protagonista, il suo sguardo.

Amin è una specie di giovane Virgilio e noi vecchi Dante con lui lungo i gironi di una specie di Paradiso/Purgatorio/Inferno messi insieme.

Sono prevedibili momenti di insofferenza per la durata e la ripetitività di alcune scene e situazioni, ma è il solito sbaglio di chi vuole le storie con inizio, sviluppo e finale, magari aperto ma finale.

Kechiche le lascia a noi le costruzioni narrative, in fondo come in Dante (ci si perdoni il richiamo, non è certo un confronto) qui c’è la vita così come viene e  il destino, mektoub, che detta le sue regole. Il tempo scompare, passato presente e futuro tornano ad essere la convenzione utile agli orologiai svizzeri per vendere i loro prodotti, qui c’è una lunga parentesi estiva sulla spiaggia della costa francese.  Primo capitolo di quello che dovrebbe diventare una trilogia,  è ambientato  nell’estate del 1994 in una zona del sud della Francia.

Amin (Shain Boumedine) bellissimo come tutti i giovani che nel 1994 affollavano la spiaggia di Sète, i bar e le discoteche del posto, arriva da una Parigi fredda e grigia (lo ripete spesso, chi nasce al sole e vive al nord ha sempre nella testa questo mantra), dove ha abbandonato il corso di laurea in medicina. Ora fa foto e scrive sceneggiature, se prima o poi incontrerà Belmondo per strada avrà fatto centro, dice.

In paese ritrova la famiglia, gli amici, la cara amica Ophélie (Ophélie Baufle) che lavora nella fattoria di famiglia e fra capre, pecore e mungiture sa il fatto suo e dirige i lavori. Questo non le impedisce di prendersi il suo bel tempo in spiaggia, bar e discoteca, oltre a far l’amore con l’ incontenibile seducente Toni (Lou Luttiau).

Ophélie e Toni sono la coppia di amanti clandestini che fa da epicentro di tutto lo sviluppo e dal loro amplesso infuocato, che Amin appena arrivato osserva tra divertito e perplesso dalla finestrella della cucina, parte il film.

Ophélie è promessa sposa di Clément, soldato che non vedremo mai in trasferta nei vari posti del mondo dove si combatte.

Lei è bella, solare, emana luce e vita, cosa deve fare? Toni fa il farfallone in giro per “copertura”, così ama dire. Madri, zie, comari varie sono sempre lì a spettegolare su loro due, la povera Ophélie ha quasi un coccolone quando Amin suona alla porta e Toni deve scappare dall’altro ingresso. Ma Amin riporta la calma, la dolce bellezza di esistere, di  lasciarsi cullare dalla vita che fluisce ininterrotta e si riproduce, come quei due agnellini che la pecora partorisce davanti a lui, fermo da ore con il suo obiettivo ad aspettare il parto.

E’ la sequenza più straordinaria, al centro del film, motore immobile della vita che rotea danzando intorno a quel quarto d’ora di silenzio, solo il bèèè dell’animale, il suo dolore di partoriente, l’amore di madre che lecca i suoi piccoli.

E’ sera, Amin è lì dal mattino ad aspettare, intorno alla pecora si addensa l’ombra, unica luce è il suo vello chiaro, unico movimento le sue zampe tese in conati spasmodici.

Una sequenza che commuove fino alla lacrime, e poi riprendono i balli, i baci, le parole che non vogliono dire niente, ciao, come va, stai bene, che fai, bevi con noi ecc., solo tenere uniti i fili della convivenza di giovani belli, spensierati, perché un tempo forse era così, un’estate al mare forse era così, l’abbiamo vissuta tutti, era così, si rideva, si piangeva, ci si amava e ci si lasciava così e poi ci si allontanava sul bagnasciuga così, alla fine dei sogni e senza più sapore di sale.

Come Amin.

Kechiche apre con un versetto della Bibbia di Giovanni seguito da uno del Corano in cui si parla di luce. Poi di luce inonda il film, la fotografia è naturalistica, calda, “Questa luce è la libertà di pensiero, la libertà che rivendico”, ha dichiarato il regista, e fuori dalla sala tutto sembrerà più buio al confronto.

Francia, Italia 2017 durata 174′

regia di Abdellatif Kechiche

con Shaïn Boumedine, Ophélie Bau, Salim Kechiouche, Lou Luttiau, Alexia Chardard, Hafsia Herzi, Delinda Kechiche, Kamel Saadi, Meleinda Elasfour, Estefania Argelish

 

_____________________

Le immagini presenti nell’articolo appartengono ai rispettivi proprietari e sono utilizzate al solo scopo di corredare il testo.

 

 

 

 

 

 

Potrebbero interessarti anche...