Polytechnique di Denis Villeneuve

Il 6 dicembre 1989 Marc Lépine, 25 anni, armato di carabina Ruger Mini-14 semi-automatica, compì una strage all’École Polytechnique di Montréal, la facoltà d’Ingegneria dell’Università della metropoli del Quèbec.

 Poi si sparò un colpo accanto all’ultima vittima.

Lépine uccise per deliberata scelta solo donne, tredici studentesse di ingegneria che per lui erano il simbolo dell’odiato universo femminista che lo ossessionava da anni. Che quelle ragazze studiassero al Polytechnique, tempio della cultura maschile, era una provocazione impossibile da sopportare.La ricostruzione che ne fa Villeneuve introduce personaggi e nomi di finzione nel rispetto dei veri protagonisti, ma lo sviluppo della mattanza è di un crudo realismo non lontano dal vero.

Un bianco e nero netto, definito, glaciale, segna riprese che spostano la macchina nei luoghi della strage con la stessa calma e metodica determinazione dell’omicida.

Aule, spazi comuni, biblioteche, corridoi affollati da un andirivieni chiassoso rimbombano di spari improvvisi, sonorità distorte sono seguite a tratti da un silenzio metafisico che crea sospensione e angoscia, il terrore non arriva per gradi, esplode inaspettato e passa oltre, pochi minuti sembrano un tempo infinito mentre la spirale di violenza si dipana serpeggiando fra gli ampi spazi dell’edificio, colpendo senza tregua una massa inerme.

“ Fare un film su una storia così dopo Elephant è come farne uno sul Vietnam dopo Apocalypse Now.  ha detto il regista – Oltretutto in patria c’erano molte resistenze: non bisognava fare un film su questo evento tragico. Proprio per questi motivi ho voluto distaccarmi da tutto e realizzarlo come se non fosse esistito nient’altro prima, e rivolgendomi al pubblico del mio paese. Il 6 dicembre del 1989 tutti gli uomini del Quebec furono investiti da un carico insopportabile di sensi di colpa che ha segnato per sempre il paese”.

come se non fosse esistito nient’altro prima….

E’ esattamente così, la violenza non si presta a confronti, brilla di luce propria, ogni volta nuova e sempre consueta, si può raccontare a partire da Omero, dipingere sui muri delle chiese con i diavoli dell’Inferno, scolpire sui rilievi della Colonna Traiana, schiacciarla sul fondo senza prospettiva dei sette metri per tre di Guernica, sarà sempre incomprensibile, paralizzante, lo sguardo incredulo delle vittime e gli occhi privi di luce del carnefice come unica forma di non-comunicazione umana.

Per il resto è tempo feroce e sospeso nell’incredulità delle vittime, nel loro terrore, nel sangue che si allarga in pozzanghere dense, irregolari, intorno ai corpi stesi a terra, nelle fughe disperate e nei rimbalzi dei corpi oltre porte e finestre, verso spazi esterni innevati e silenziosi, ignari.

Nessuno sa, nessuno arriva, e dopo sarà troppo tardi.

C’è un “prima” di apparente, innocua normalità, ci sarà un “dopo” dove essere sopravvissuti sarà senso di colpa, dolore inestinguibile. La violenza tocca il suo apice nella strage, ma sono solo 19 minuti, l’atto centrale.

C’è un prologo in cui cova inosservata.

Marc Lépine vive in un pensionato per studenti, in camera si prepara per la sua sanguinaria impresa, spia nella finestra di fronte una ragazza che si veste ed esce. Perché?

Il compagno di stanza lo saluta con un ciao e gli scompone allegramente i capelli, lui non parla, in cucina guarda fisso dentro il frigo, è assorto, perché?

Sentiremo a breve la sua voce che legge la prima lettera del film, ascolteremo la seconda nel finale letta da Valérie, la sopravvissuta.

Marc parla di sé a futura memoria, le tappe della sua vita senza qualità e la granitica certezza, un odio per la donna intessuto di argomentazioni futili, classificabili come banali e stupide se non appartenessero ad una personalità disturbata che, prima della strage, imbucherà perfino un biglietto a “mammina” con scritto: “Mamma scusa, era inevitabile”.

La violenza cova nascosta nelle pieghe di un mondo quasi tutto maschile, una scuola dove essere donna non è una colpa, certo, ma una ragazza come Valérie è facile che sia respinta al colloquio per lo stage di ingegneria meccanica.

Perché ingegneria meccanica? Le donne di solito scelgono ingegneria civile, è più facile. E poi…un domani si sposano, fanno figli, no no, bisogna garantire una presenza continua e sicura…

Arriva quindi lo psicopatico di turno con la sua carabina e ne fa fuori tredici.

Reazione a catena?

Villeneuve osserva e registra il fenomeno con la necessaria freddezza, sembra un teorema, “data una condizione iniziale arbitrariamente stabilita, trarre conclusioni passando per una dimostrazione”.

Si parla con voluta sottolineatura di entropia, le due amiche ripassano il concetto mentre si preparano per la giornata a scuola scegliendo vestiti e depilando le gambe, ahimè, pratica tutta femminile.

In classe il prof. si sta diffondendo proprio su quel concetto di “graduale degenerazione di un sistema verso il massimo disordine” quand’ecco entra Marc e ordina ai maschi di uscire.

Il resto è storia nota che non concede una virgola alla fascinazione, al pietismo, al sincero, compunto dolore.

Epilogo:

Dalla lettera di Valerie, forse mai spedita, alla madre di Marc:

suo figlio mi ha aperto la porta sull’odio che può esistere nel mondo, e mi ha segnata per sempre…oggi ho paura per la seconda volta nella mia vita.

Valérie è ingegnere meccanico, in aeronautica, come aveva sempre sognato.E’incinta, l’ha saputo da poco.

Se avrò un bambino gli insegnerò ad amare. Se avrò una bambina le dirò che il mondo è suo.

Polytechnique

Canada 2009 b/n durata 76′

regia di Denis Villeneuve

con Maxim Gaudette, Sébastien Huberdeau, Karine Vanasse, Evelyne Brochu

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