Quello che non so di lei di Roman Polanski

Based On a True Story e Quello che non so di lei: due titoli in rotta di collisione, quello originale e la forma italiana.
Un titolo conta, solo le arti visive hanno il privilegio di usare quel “senza titolo” che lascia a chi guarda un compito arduo, indirizzare la propria strategia visiva alla ricerca dei significati dati dall’autore.
Jacques Derrida, nel suo La verità in pittura, attribuisce addirittura al “senza titolo” una funzione di verità perchè il titolo condiziona l’attenzione e il livello di coinvolgimento, è un vettore sull’orientamento dello spettatore, cosa indispensabile al cinema, solo le arti visive hanno uno statuto compatibile con quella formula.
Eppure questa volta un “senza titolo” sarebbe stato appropriato, il film è sconfinato, non circoscrivibile, arbitrario tutto quello che gli si può attribuire a livello di significato, vola libero e felice nel firmamento del cinema, e basta.
E allora accettiamo anche due titoli che, pur procedendo lungo traiettorie divergenti, dicono del film quel che si può dire.
Il titolo originale vince il match soprattutto come espediente cinematografico puro.
Il magnifico passaggio, morbido, fluido, inatteso, dal titolo del libro/focus centrale della storia narrata ai titoli di coda che cominciano a scorrere è opera da maestro e lascia lo spettatore dicendogli: “ Ora tocca a te raccogliere le fila e risolvere, se riesci, il rebus”.
La traduzione italiana una volta tanto è intelligente, gioca sulle parole, sul “lei” che nel film è il nucleo narrativo, sull’uso della prima persona che riconduce al punto di vista della protagonista della coppia, che chiameremo n.1, e, soprattutto, sottolinea il non sapere, l’ignoto, il mistero che avvolge quella che chiameremo la n.2.
Emanuelle Seigner è la n.1, Delphine, scrittrice di best seller di successo, di quelli che capita spesso di vedere in film (di solito francesi o hollywoodiani) venduti come noccioline mentre l’ autore, seduto al tavolo in libreria, firma copie e fa dediche mirate a file di lettori adoranti. Costume che difficilmente attecchirà in Italia, e di questo possiamo solo essere fieri, offre comunque il pretesto per l’incipit.
Arriva infatti, buona ultima e quando ormai Delphine è distrutta dalla stanchezza, la splendida, luminosa come non mai, Eva Green, la n.2, Elisabeth, visione semi-paradisiaca ripresa dal basso, il punto di vista di Delphine seduta al tavolo. L’altra è di fronte e le chiede una dedica.

Elisabeth è Lei, sta per Leila, e da quel momento si accoccolerà a mò di scimmia (nel gergo della tossicodipendenza) sulla spalla della povera Delphine facendo scattare un fenomeno di plagio che sconfinerà nel thriller, con qualche concessione horror e un coinvolgimento erotico delle due donne appena suggerito, ma di forte intensità, in cui riconosciamo il tocco da maestro di Polansky, questa volta validamente accompagnato dalla sceneggiatura di Assayas, l’unico capace, a detta del regista, di ridurre a magnifica sceneggiatura un romanzo di 300 pagine (il testo di riferimento di Delphine de Vigan)

Le citazioni che si potrebbero fare parlando del film sono tante, dalla filmografia polanskyana, ricca di stilemi che qui tornano prepotenti, a film che hanno fatto epoca (uno fra tutti, Misery non deve morire, dove lo splendido, inquietante sorriso acqua e sapone di Katy Bathes ricorda tanto da vicino quello delle labbra rosso corallo altrettanto inquietanti di Eva Green).


Entrando nel plot, ma soprattutto evitando spoiler che nuocerebbero al notevole piacere della visione, possiamo sottolineare tre punti chiave: le locations, il maschio, la descensio ad inferos, una caduta vorticosa ottenuta con mezzi tanto raffinati quanto ironici e volutamente esibiti.

Le locations: libreria/bar, appartamento di città, casa di campagna (una specie di buen retiro piuttosto lugubre del compagno intellettuale di Delphine, dove si beve spesso buon vino in grossi calici di cristallo e il vicino di casa, brutto e servile, porta bottiglie di sidro in omaggio).
Sono posti accattivanti, molto gradevoli, appartengono al solito milieu intellettual/borghese (ricordiamo Elle di Paul Verhoeven ) dove succedono le peggiori cose, e anche in questo Polanski è sempre stato maestro.

Il maschio: compagno di Delphine, più giovane di lei, ma di poco, se ne va in America per tre settimane ad intervistare Cormach McCarthy, Don De Lillo e giù altri nomi famosi, tutti ad aspettare lui. E’ protettivo, docile, quando c’è, ma è del tutto ininfluente, una presenza posticcia, volutamente inutile.
La descensio ad inferos: è l’elemento chiave, pezzo forte del film, quello che Polansky dirige come un grande direttore d’orchestra sul podio dei Berliner, procedendo un passettino per volta, giocando con lo spettatore come il gatto col topo (non mancano i topi, invisibili ma molto temuti, e la discesa ripidissima della protagonista con gamba ingessata nella buia cantina a disseminare topicida).

Il crescendo di tensione è garantito, le credenziali ansiogene ci sono tutte al massimo grado, lo scioglimento finale con salti temporali appropriati rimette le cose a posto, ma solo apparentemente.
Based On a True Story è il titolo del nuovo libro, ma è anche il titolo del film, coincidenza inquietante. Dunque è una storia vera.
Ma Elisabeth dov’è? Abbiamo sognato? O ha sognato Delphine? A cosa credere, e chi deve credere cosa? E’ un film sul mistero del processo creativo, sulla genesi travagliata di un’opera d’arte, sul blocco dell’ispirazione, sul dramma dell’autore e sul mercato dell’arte, o è solo una banale storia di plagio condito da disturbi al limite di patologia conclamata che si ribalta in successo editoriale? Chissà, forse è tutto questo.
Siamo al cinema, ci ricorda Polanski, è questa l’unica certezza.

Quello che non so di lei

titolo originale: Based On a True Story.
Francia, Belgio, Polonia,2017, durata 110 minuti

regia di Roman Polanski.

 con Emmanuelle Seigner, Eva Green, Vincent Perez, Damien Bonnard, Dominique Pinon. 

 

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