Un sogno chiamato Florida di Sean Baker

Applaudito alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes, dato in corsa per un Oscar mai arrivato, mandato in chiusura al Torino Film Festival 2017, film super indipendente di un geniaccio che il cinema ce l’ha nel DNA, Sean Baker, The Florida Project prende tutto il kitch americano da cartolina, l’America dei Trump e delle ciambelline zuccherate, dei motel color fucsia e dei castelli di cartapesta di Disneylandia e ci piazza dentro la vita rumorosa, maleducata, molto più sconveniente dei ragazzini di Truffaut o Vigo, di quattro bambini selvaggi, animaletti allo stato brado con pseudo famiglie o madri single mezzo tossiche e mezzo prostitute al seguito.

Un viaggio in miniatura in un’America senza futuro, “…una enorme, triste commedia di fraseggi selvaggi, di immagini senza significato per la bellezza di poesia astratta ininterrotta che creavano combinazioni maldestre come il procedere di Charlie Chaplin…”.
E’ l’urlo, Howl, di Ginsberg che ancora manda echi in questo profondo nulla dell’America dei derelitti, dei bambini che giocano urlando come ossessi nella periferia di cartapesta del Luna Park reale di Mirabilandia, Orlando, dove quel gran genio di Walt Disney, profeta del capitalismo selvaggio e crociato dell’ anticomunismo sotto Mc Carthy, creò la multinazionale dei buoni sentimenti e del divertimento un tanto a biglietto.
E’ il Magic Kingdom del Project Florida che brilla da lontano davanti agli occhi incantati di quattro bambini squattrinati e dove solo la fantasia li porterà.

Magic Castle, poco lontano dal Magic Kingdom, è un motel dai colori confetto che di zuccheroso ha ben poco.

Diventato un complesso di case popolari, ci vive una comunità di povera gente con tanti bambini, e sono loro a dar luce a questo mondo, certo la loro infanzia è come quella di tutti i bambini, cioè inconsapevole e innocente, fiabesca fino a quando i confini che li separano dallo spazio dei grandi non si rompono.
Ma i bambini sanno come scappare verso il sogno, e allora bisogna correre al finale per tirar su un po’ di respiro, anche se quel castello incantato è un sogno di cartapesta che sfuma sui titoli di coda.

A dirigere il motel c’è un manager, parola che suona pretenziosa visto il contesto.
Registra gli ingressi, raccoglie a fatica gli affitti settimanali, ridipinge i muri, butta fuori il pedofilo di turno, uomo di fatica e deus ex machina quando c’è una crisi in corso, è un grande Willem Dafoe che si muove quasi sotto traccia nel caos generale e nel chiasso ininterrotto dei bambini, ma è una presenza energica e rassicurante quando si supera il livello di guardia (e capita spesso).

Gli bastano uno sguardo e poche parole, con quel viso quadrato e rugoso di burbero benefico è il trait d’union fra grandi e piccoli, se fossimo a Berlino sarebbe un angelo caduto da quel cielo.

Con The Florida Project Sean Baker torna a parlare del sogno americano abortito.

Dal Sunset boulevard di Los Angeles di Tangerine si sposta ai margini di Disneyland, il sogno dei sogni, e se stavolta lo fa con i finanziamenti necessari e le mdp giuste lo spirito è sempre quello, uno sguardo disincantato, stavolta però più acre e sconsolato, non c’è spazio per l’humor quando una società è compromessa anche nel suo futuro, i bambini.
Se in Tangerine c’era un’anti-Hollywood che circolava in cerca di espedienti per salvare la giornata e la nota dominante era la lucida follia di un popolo di spiantati, in questo film la nota è una tristezza senza fine, accentuata dalla patina luminescente di colori, rumori, grida di bambini, corse sfrenate, scherzi da monellacci con parolacce al seguito.
E’ un ipercinetismo che mette in guardia.
Quella che sulle prime sembra la spontanea, naturale vivacità di bambini che giocano all’aria aperta, ben presto capiamo essere frutto di nevrosi e mala educaciòn di vite che crescono dove non c’è futuro, ai margini di un sogno per turisti danarosi che loro possono  guardare solo da lontano.
Sono bambini tenerissimi e disarmanti che leccano un gelato in tre, si muovono con sincronia e complicità perfetta, vivono in solidarietà totale fra loro, compiendo con innocenza e allegria anche le imprese più sconsiderate, come dar fuoco al villaggio vicino abbandonato.
Con la stessa innocenza corrono a guardare dove finisce l’arcobaleno o le mucche che pascolano fra gli acquitrini, ma arriverà anche per loro il tempo delle lacrime.
La piccola Moonee, sette/otto anni e protagonista assoluta, è un’ attrice completa, rinnova i fasti delle bambine celebri del cinema. E’ la figlia perfetta di Halley, ragazza madre svampita e gioiosa.
Venuta chissà da dove e lasciata sola con una figlia e nient’altro, incapace di qualsiasi forma di disciplina, Halley sarebbe una creatura dei boschi o una ninfa delle sorgenti se invece non si trovasse a vivere in un motel di disgraziati senza un soldo a doversi inventare qualcosa per mangiare, compreso il prostituirsi.

Se alla fine della corsa arriveranno i servizi sociali non c’è dunque da meravigliarsi, la piccola Moonee se ne andrà in qualche bella famigliola modello Desperates Housewives che la porterà a Disneyland e le insegnerà la buona educazione.
Non è facile amare una ragazzina così maleducata e strafottente, ma quando sul visetto cominceranno a scorrere le lacrime capiamo che non c’è rabbia che basti.
“… sono con te a Rockland, nei miei sogni arrivi in lacrime, gocciolante, dalla crociera della traversata in autostrada dell’America alla porta del mio cottage nella notte dell’Ovest”.

Un sogno chiamato Florida

titolo originale:The Florida Project

Usa 2018 durata 115’

Regia Sean Baker

con Willem Dafoe, Brooklynn Prince, Valeria Cotto, Bria Vinaite, Christopher Rivera

 

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