ANGOLO POESIA: Giorgio Caproni, cantore del “labile”

a cura di Gabriele Civello

Di cose labili appare / la terra: di voci e di calde / folate” , recitano alcuni versi di Sera di maremma , da Come un’allegoria (1932-1935).

In queste parole, piane e garbate, sembra coagularsi quasi l’intera poetica di Giorgio Caproni (1912-1990): la “terra”, che dice concretezza, materia, immanenza, ma anche finitudine, umiltà, semplicità e schiettezza.

A Camon dirà:

“L’unica ‘linea di svolgimento’ che vedo nei miei versi è la stessa ‘linea della vita’: il gusto sempre crescente, negli anni, per la chiarezza e l’incisività, per la ‘franchezza’, e il sempre crescente orrore per i giochi puramente sintattici o concettuali ”); le “voci”, vociare, grido, canto, cantilena, nonché scorrazzare, “sfrenate rincorse ”, chiasso, rumoreggiare di fanciulli o di ubriachi in trattorie e osterie; il “calore ”, sudore, fiamma, incendio, rogo, falò, brace, carboni, combustioni, gradazioni del rosso, fuoco, vampa, arsura, bruciore, febbre, umidità e poi cenere, pelle, fronti madide di giovani e di cavalli (i cavalli allevati da Cecco, nelle campagne tra Pisa e Livorno), ma anche sangue color geranio o garofano, vitalità, mortalità; infine, le “folate”, vento, brezza marina, aria (perlopiù salata o salmastra), ariette, vapori, soffio, fiato, alito, e poi tende e vele gonfiate da Eolo, ma anche fumi, profumi, essenze, esalazioni, odori acri, aspri e rancidi, tanfo di porto e di catrame, afrori di corpi adolescenti, di ascelle e di arselle in rima, aromi, sentori e, per traslato, furore, spirito, sospiro, spirazione, animo, anima”.

Queste, in effetti, le quattro più importanti galassie del lessico e delle “atmosfere” di Giorgio Caproni, fin dalla prima poesia, Marzo , da Come un’allegoria (1932-2935) e almeno fino a Il franco cacciatore (1973-1982), alle soglie di Il Conte di Kevenhüller (1986), quando il linguaggio e il “pianeta” di Caproni saranno destinati a mutare radicalmente volto.

Ciò che accomuna quattro sfere apparentemente eterogenee (“terra”, “voci”, “calore” e “folate”) è senz’altro il primo aggettivo, assai frequente in Caproni, non a caso posto al principio del verso, dopo il semplicissimo e generico “cose”: “labili ”, la labilità, la natura effimera, transeunte, provvisoria e mortale del tutto, al cospetto della quale la vocazione del poeta sembra quasi l’afferrare il battito d’ala poco prima che cessi inesorabilmente, definitivamente; con le parole del Poeta: ricercare nella labilità dell’esistenza “rime che non siano labili ” (Per lei , da Il seme del piangere ).

Nell’intervista di Ferdinando Camon il Poeta confessa:

All’origine dei miei versi, più che una donna, direi che c’è la giovinezza e il gusto quasi fisico della vita, ombreggiato da un vivo senso della labilità delle cose, della loro fuggevolezza: coup de cloche, come dicono i francesi, o continuo avvertimento della presenza, in tutto, della morte ”.

Il venire all’improvviso, il restare discretamente, il trattenersi un attimo e l’andar via in punta di piedi sono le dimensioni costanti della poesia di Caproni, che potrebbe proprio esser definita come “il gioco alterno di tante / partenze e di tanti arrivi ” (Veneziana , da Finzioni, 1938-1939): viaggiatori cerimoniosi, impazienti o sconsolati (Congedo del viaggiatore cerimonioso ; Parole (dopo l’esodo dell’ultimo della Moglia e molte altre), che, tra una sala d’attesa di anonime stazioni ferroviarie, uno scompartimento vuoto e il predellino precario di un tram, tra una coincidenza e una destinazione, attendono improbabili arrivi e partenze, salgono su filobus, treni, e poi anche su funicolari e ascensori di una Genova dell’anima (“i treni che vengono e vanno senza fermarsi”,  Ad portam inferi, da Il seme del piangere , 1950-1958) o sulle immancabili biciclette, su e giù per ariose città marinare.

Circondato da ragazze candide, sbracciate, timide e canterine, “con cipria e odor di vita / viva ” (L’ascensore , da Il passaggio d’Enea , 1943-1955), dalla carnagione arsa e la pelle calda, o da fanciulli e ragazzacci scalzi, scostumati e rumorosi (“ragazzaglia aizzata”), sgolati, trafelati e scalmanati, dediti a risse, clamori e sassaiole, il Poeta da un lato respira e apprezza la spensieratezza del volgo semplice e scanzonato, dentro osterie e sagre danzanti; dall’altro lato, però, percepisce distintamente e costantemente lo hiatus rispetto alla propria condizione di intellettuale solo, isolato e pensoso (“Non è questo il mio / paese ”,  Il gibbone , da Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee , 1960-1964. “Sono partiti tutti ”, Lasciando Loco , da Il muro della terra, 1964-1975).

Sempre la labilità, la precarietà e il senso di irreversibile dissipazione dominano la visione del mondo e sul mondo: la “spuma labile ” che dura pochi istanti (Divertimento, da Il seme del piangere, 1952-1958), la piuma leggera che vola via al primo sbuffo di brezza, la nebbia che tutto confonde, la brina che si dilegua al primo sole bianco; e ancora: fiamme che sono “istantaneo / battito di ciglia ” (Incontro, da Ballo a Fontanigorda, 1935-1937), “l’acqua che passa ” come nel migliore frammento d’Eraclito (Ad Olga Franzoni, ibid.), “vampa che si consuma / in cenere” (E lo spazio era un fuoco , da Cronistoria , 1938-1942; cfr. anche Sonetti dell’anniversario , IV e V, da Cronistoria ).

Il vento, ἄνεμος, con un piccolo salto di logos , si fa anche animus , animo, spirito (“Il vento e nient’altro. Un vento / spopolato. Quel vento, / là dove agostinianamente / più non cade tempo”, Dopo la notizia , da Il muro della terra); il fumo ritorna etimologicamente al θυμός, anch’esso anima e spirito, in un continuo interscambio tra elementi naturali ed elementi spirituali (cfr. Suicida , da Ciarlette nel ridotto: “Aveva alzato una tenda. / Il vento gliela strappò via. / “Che il vento”, disse, “si prenda” / anche l’anima mia ”).

In questo susseguirsi di soglie del tempo e dello spirito, nell’andirivieni di persone e di situazioni che giungono o fuggono (“ un transitare / continuo, come il mare”, Il passaggio d’Enea; “ il mare / … col suo divagare / perpetuo ”, I ricordi, da Congedo del viaggiatore cerimonioso ), è fondamentale anche l’alternarsi tra albe (fresche, frigide, umide, bianche, lattiginose, albine) e rare sere silenziose, evidenti metafore di giovinezza/senilità, speranza/delusione, cominciamento/fine.

Spostamento e mutamento sono, allora, gli assi fondamentali del poetare di Caproni, ad evidenziare l’incessante divenire nello spazio e nel tempo delle cose, delle persone, delle situazioni (“ E quanto mai / dolce è per un istante / indugiare allora sul tempo / andato”, Pausa, da Ballo a Fontanigorda ), come opportunamente registrato dal Poeta in Cronistorie

A Caproni sembra, allora, che la vita sia una eterna e onirica sala d’attesa, ma di una sospesa attesa che forse non si sa nemmeno che cosa attenda, visto che Dio non esiste, “s’è suicidato…non ha saputo resistere al suo non esistere ”, o comunque non si manifesta a noi mortali; una sala d’attesa dalla quale, forse, il partire e l’arrivare sono solo ambigui e apparenti ologrammi, quasi una illusione ottica, paradossale ma sempre dolcissima:

Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai

(Biglietto lasciato prima di non andar via , 1975, da Il franco cacciatore ).

 

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