Dov’è la casa del mio amico? di Abbas Kiarostami

Appartiene alla cosiddetta trilogia di Koker, un’etichetta data per la presenza nei tre film del villaggio dell’Iran settentrionale ora abbandonato a sè stesso dopo il terremoto del 1990 che fece più di 50.000 vittime. La vita e niente più (alias And Life Goes On , 1992) e Attraverso gli ulivi  (1994) sono gli altri due, anche se sarebbe appropriato aggiungere Il sapore della ciliegia (Taste of cherry), capolavoro del 1997 e formare una quadrilogia.

Primo lungometraggio di Kiarostami, Dov’è la casa del mio amico? ha fatto conoscere all’Occidente quel suo sguardo inconfondibile sulle cose e sugli uomini, la bellezza infinita degli occhi, dei gesti, delle parole del piccolo Ahmed che vive una giornata estrema per le sue piccole forze, e ce la fa, non si arrende e quel fiorellino chiuso fra le pagine del quaderno dell’amico valgono più di una coppa d’oro.

Un film ad altezza di bambino, Ahmed, che vive in uno sperduto paese dell’Iran vicino ad un intrico di altri villaggi dai nomi improponibili.

Il piccolo, forse 10/11 anni, cerca disperatamente la casa del compagno di scuola di cui ha preso per sbaglio il quaderno, il mattino, alla fine delle lezioni.

Così l’amico non potrà fare i compiti, e già era stato rimproverato dal maestro per aver fatto male il suo lavoro senza il quaderno lasciato dal cugino. Il poverino aveva pianto davanti a tutti e poi, fuori, era anche caduto sporcandosi i pantaloni arancione, quelli che tante speranze daranno alla lunga ricerca di Ahmed quando li vedrà pendere, lavati, nel cortiletto di una casa.

Ahimè, non sono quelli dell’amico, però.

La prima lunga sequenza di apertura nell’aula elementare dà subito il taglio di una storia fatta di adulti indaffarati, disattenti, coercitivi e, non di rado, punitivi. Di fronte a loro, e molto più in basso, un mondo di bambini su cui esercitano un potere assoluto, bambini a cui s’insegna solo la parola disciplina, si ordina di fare questo o quello, si è sordi alla loro richiesta di aiuto.

Il maestro è un petulante uomo di scuola pienamente compreso nel suo ruolo di educatore, ripete senza tregua che bisogna imparare la disciplina, essere educati e rispettosi, fare i compiti prima di ogni altra cosa e prima ancora di lavorare col padre a tirar su legna o pesanti bidoni di latte.

Evidentemente si tratta dei doveri di questi ragazzetti tutt’altro che obesi come vitelli all’ingrasso, tutt’altro che rumorosi e strafottenti come certa fauna infantile in circolazione in Occidente.

Sono piccoli, docili, occhi sgranati, sembrano incapaci di dire una parola di troppo, eppure quanta umanità, freschezza, serietà, amicizia riescono ad esprimere!

Guardano gli adulti intorno a loro, pensano, avvolti nella loro mitezza, e quando s’incontrano si scambiano poche parole ma si respira un’aria diversa.

Ahmed pensa che deve a tutti i costi trovare la casa dell’amico nel distretto di vattelapesca per riportargli il quaderno. E’ un paese non lontano dal suo, ma la strada s’inerpica piena di giravolte su per la collina e lui corre, corre, corre, sembra volare, è instancabile su e giù per i gradini di pietra quando raggiunge il paese, ma la casa dov’è? non sa a chi chiedere e intanto fa buio e i cani abbaiano.

Doveva comprare il pane, glielo aveva ordinato la mamma alle prese col piccolo da allattare, e allora via fuori, scappa col quaderno sotto il maglione, magari riesce a far tutto e tornare in tempo per il pane … e corre.

C’è una collina tra i due villaggi – dice Kiarostami – e sulla cima della collina un albero, che nella nostra letteratura è simbolo di amicizia; il continuo correre di Ahmad rappresenta le difficoltà per poterla raggiungere”.

E’ un correre che sa quasi di sovrumano, quello di Ahmed, con le sue gambette veloci e il maglioncino rosso, la calottina nera di capelli serrati e gli occhioni seri seri, col quaderno sotto il braccio e questa casa che non si trova mai.

E gli adulti,  niente da fare, se mai lo ostacolano, solo un vecchio lo ascolta, ma è troppo malandato, si fa buio e vorrebbe accompagnarlo a casa, il quaderno è sempre lì,  ma l’uomo non ce la fa, è troppo stanco.

E allora dà un fiore ad Ahmed e gli dice di metterlo tra le pagine.

Lo rivedremo quel fiore, prima dei titoli di coda.

C’è un ritmo nelle riprese che sbalordisce, è poesia che si trasforma in immagine, è una storia dalle Mille e una notte che rimbalza fino a noi, sceglie Ahmed come piccolo eroe e ci racconta di una cultura diversa, lontana nei modi, rituali, lingua e costumi, eppure così vicina per quella distanza tra mondi che ci rende tutti uguali sotto lo stesso cielo.

Un film sull’incomunicabilità? In un certo senso sì, ma anche molto altro, fin dal suo primo film Kiarostami tesse l’elogio della fermezza e dell’etica del rapporto con l’altro, affidandolo ad una scelta narrativa di grande e apparente semplicità, un bambino, un quaderno, una lunga corsa. Dietro c’è tutto, basta saper guardare.

Sohrab Sepehri è un poeta iraniano citato nei titoli di testa a cui Kiarostami dedica il film.

Tu andrai in fondo a questo viale

che emergerà oltre l’adolescenza,

poi ti volterai verso il fiore della solitudine.

A due passi dal fiore, ti fermerai

ai piedi della fontana da dove sgorgano i miti della terra…

Tu vedrai un bambino arrampicato in cima a un pino sottile,

desideroso di rapire la covata del nido della luce

e gli domanderai: dov’è la dimora dell’Amico?

Forse è un film sul mondo salvato dai bambini, da quei bambini.

Abbas Kiarostami

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Dov’è la casa del mio amico?

Khane-ye Doust Kodjast? – Iran, 1987, durata 85’

di Abbas Kiarostami con Babek Ahmadpoor, Ahmad Ahmadpoor, Kheda Barech Defai

 

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