OFFICINA TEATRALE

INFERNA DANTIS ORKESTRA

a cura di Sara Di Giuseppe

( Specials post)

INFERNO DI DANTE A CONCERTO

Canti I-X e XIII

 A mo’ di prologo, prima di cominciare, qualcosa sul teatro di Vincenzo Di Bonaventura

E’ teatro d’avanguardia, arduo e iconoclasta, lontano dall’ufficialità del teatro tradizionale, accademico, istituzionale, che nella definizione di Peter Brook è “teatro mortale” il cui primo effetto è “la noia”.

Rifacendosi alla lezione di Jaques Lecoq, e sulla scia della ricerca avanguardistica di Antonin Artaud, Peter Brook e Carmelo Bene, Di Bonaventura aderisce a quel teatro del soggetto-attore nel quale l’interprete, sottraendo il testo alla sclerosi del “teatro-birignao”, lo trasforma.

Annullando la distinzione fra autore e attore, questi diviene artifex, artefice in toto – autore regista attore scenografo costumista – dunque “macchina attoriale”, teatro egli stesso, hic et nunc (per Carmelo Bene i grandi artisti non fanno teatro, sono teatro).

Il prodotto è una relazione così intensa e alchemica fra attore e spettatore che quest’ultimo, come scrive Carmelo Bene, “non dovrebbe poter mai raccontare ciò che ha udito, ciò da cui è stato posseduto nel suo abbandono a teatro”).

I pilastri della ricerca di Carmelo Bene intorno alla phoné (quel complesso sistema che G.Dotto, in Vita di Carmelo Bene, chiama “l’alleanza tra l’elemento musicale e cantato con l’elemento vocale inventato, creato, reso necessario”) sono inoltre ben presenti nella produzione di recital/concerti intorno all’opera dei maggiori poeti e scrittori – da Foscolo a Leopardi, da Majakovskij a D’Annunzio, da Goethe a Nietzsche, da Baudelaire a Campana – e particolarmente nei concerti dedicati alle tre cantiche della Divina Commedia.

In questi ultimi, realizzati a partire dai primi anni Novanta e periodicamente replicati in forme sempre nuove – fino all’attuale Inferno di Dante a Concerto – l’endecasillabo dantesco diviene “macchina narrante”, sceneggiatura e partitura musicale che dialoga apertamente con la musica percussiva. Questa a sua volta si fonde alla voce attoriale che attraversa i registri più diversi e ardui, fino a trasformare in cupo spasmo di anima dannata anche la dolente narrazione di Francesca.

Esperienza di rara efficacia la cui portata artistica ed emotiva richiama l’indimenticata Lectura Dantis di Carmelo Bene dalla Torre degli Asinelli di Bologna, nel primo anniversario della strage.

Viaggio del pellegrino”, quello di Dante: così lo definisce Di Bonaventura nel riproporre quell’ Inferna Dantis Orkestra che fu avanguardia vent’anni fa nel suo Teatrodue e – replicato in Festival internazionali e in tutte le possibili vie e vicoli del passato e del presente – è avanguardia ancor oggi, con buona pace di paludati recitals o di benignesco Dante-spiegato-al-popolo-e-alle-scuole.

Abbatte schemi e rovescia canoni questo “Concerto” per voce sola, percussioni e immagini: qui l’attore “canta” e il musicista “narra”; qui l’endecasillabo dantesco è partitura musicale che dall’Ouverture dei primi tre Canti dispiega il tema nei successivi, è evento sismico che scuote e sovverte.

Dovrete tornare fra trent’anni, e lo capirete”, scherza l’attore. Ci saremo, in qualsivoglia forma.

Il “brivido allucinatorio” che amalgama alla sonorità del verso quella della musica percussiva ci scaglia al di là di noi (“al di là di Andromeda” dirà l’attore), dentro l’oltremondo dantesco e dentro quell’ineguagliata architettura linguistica, la più alta che dal Trecento in qua mente umana abbia innalzato.

Il disperato loco d’ogni luce muto, l’orrore dei corpi attorti nella pena senza fine: sulla parete ne scorrono le immagini nelle forme che la visionarietà artistica ha prodotto; con altra forza ci percuotono il verso e il respiro solenne del metro dantesco, la duttile materia dell’endecasillabo che nelle Comedìa non teme dissonanze audaci e contrasti.

Il tamburo fiammante dilata l’andamento ritmico dei canti che voce e percussioni scandiscono in “movimenti”. Se nelle terzine “sentiamo la robusta architettura intellettuale del suo poema” (Fubini), l’attoriale memoria metabolica si fa oggi, di quell’architettura, “macchina narrante” e concertante, tessitura poetica e musicale che dalle atmosfere ancora sospese dell’apertura e dalle tonalità calde dell’incontro con Virgilio – intima vibrazione che avvicina i due “pellegrini dell’oltretomba” – s’inarca poi nel ribollente magma dei gironi infernali, distorce in gorgoglìo aspro di pena la voce dei dannati.

Così dall’ombra di Francesca sorge roca, come da profondità senza tempo, la narrazione dell’amore rovinoso, forza incoercibile e tragica per la quale tignemmo il mondo di sanguigno; il pianto di Paolo accompagna quella voce frantumata e scoscesa che piange e dice, e Dante viene meno – così com’io morisse – nell’urto con la propria materia di uomo e le sue fragili certezze.

Registrazione di una performance del 2010. Per l’ascolto del Canto V (vv. 45-55) sintonizzarsi al minuto 45′

Così discesi dal cerchio primaio … e caddi come corpo morto cade

Perché è sostanza umana quella che il poeta porta con sé, con lui la politica e la storia irrompono nella dimensione ultraterrena.  E se continuo è il trapasso dal particolare all’universale, dalla realtà effettuale alla norma assoluta, ognuna delle ombre incontrate è tuttavia legata al gesto che ne ha connotato il destino; così Francesca nella bufera infernal che mai non resta è abbracciata a Paolo, essi sono quei due che ’nsieme vanno; Farinata è scolpito nella fierezza del ruolo giocato nel Concilio di Empoli; Ciacco è, pur nella depravazione del vizio, il concittadino da cui apprendere la sorte di Firenze corrotta e dilaniata dalla discordia, il (quasi) contemporaneo che gli chiede dolente di ricordarlo ancora, quando sarà tra i vivi (Ma quando tu sarai nel dolce mondo / priegoti ch’a la mente altrui mi rechi).

La sequenza serrata degli incontri, l’ineluttabile eternità della pena che sfigura i volti e i corpi in continua tensione tra orrore e grottesco, l’“espressionismo titanico” che nella cantica disegna l’oltremondo infernale: tutto si dispiega nel possente respiro del verso per poi ricongiungersi e fondersi nell’implacabilità delle percussioni, la voce si deforma negli accenti irosi o striduli delle creature infernali, del bestiario medievale che s’intreccia al mito antico.

Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, Flegiàs, le Arpìe, i diavoli della città di Dite… sono l’universo allucinato che tuttavia l’umanità del poeta vivente e la dignitas del poeta antico sovrastano, pur scosse e provate. Per un Virgilio furente che inveisce contro i diavoli di Dite, c’è un Dante vendicativo che respinge il barattiere Filippo Argenti, ben conosciuto in vita, perché sprofondi al più presto nella palude fangosa da cui è emerso.

È l’irriducibile concretezza della vita terrena che continua ad agire nell’oltretomba, è “temporalità contenuta nell’eternità senza tempo” che proietta le forme terrene sub specie aeternitatis: è incessante ricerca di significati universali che permea il dialogo ininterrotto con Virgilio – duca, maestro, “padre” – e si amplia nelle discussioni dottrinali, evoca gli spiriti magni che il poeta colloca nel Limbo. Della magnanimità di quelli, megalopsuchia che è grandezza virtuosa opposta all’ignavia e all’indifferenza, s’illumina il poeta prima di lasciare per sempre la queta, il loco aperto, luminoso e alto dal quale s’inoltrerà nel regno ove non è che luca.

E umana, affettuosa pietà, terrena e accorata, accompagna Dante nella selva dei suicidi: la sorte di Pier della Vigna – canto XIII, omaggio finale e intenso del validissimo allievo Lirim – il ramo secco e sanguinante da cui si leva voce che poco ha di umano – Uomini fummo, e or siam fatti sterpi – colpiscono il poeta con insopportabile intensità; così tanto da chiedere che sia Virgilio a rivolgere a quello spirito nuove domande, ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora.

Sempre presente e concreto con la sua storia personale, il poeta ritrova, nel personaggio retto, spinto al suicidio dall’ingiusta accusa e dall’invidia, le ragioni della sua stessa vicenda politica, la dirittura che rifiuta il compromesso, la crudeltà del distacco da quella Firenze che mai rivedrà.

Così è forse anche dello stesso Dante la preghiera di quel magnanimo: E se di voi alcun nel mondo riede, / conforti la memoria mia, che giace / ancor del colpo che ’nvidia le diede.

L’ Inferno di Dante a Concerto ci restituisce interi, oggi, l’afflato poderoso e il messaggio umano e morale del poema, la tensione agonistica che è paradigma di un’esperienza universale di ricerca.

E sono viaggio – tutto terreno – anche le preziose due ore di catartico, vitalissimo abbandono allo spettacolo.

Nota sull’Autore

L’esperienza teatrale di Vincenzo Di Bonaventura (1950, Roseto degli Abruzzi) iniziata alla Scuola di Teatro di Bologna diretta da A.Galante Garrone secondo i principi di Jacques Lecoq, perfezionata poi a Londra alla Scuola Internazionale di Mimo e Clown di Philippe Gaulier , si svolge a partire dagli anni Ottanta e per circa un ventennio prevalentemente in Veneto (cooperativa Teatromondo di Venezia – con la regia di Giuseppe Emiliani – Teatro Universitario Ca’ Foscari, Teatro Stabile del Veneto e Teatro Nìovo di Venezia).

A S. Benedetto del Tronto, dove vive, fonda il Teatrodue e il TeatrLaboratorium27 Aikot, la cui attività oltre a spaziare dai tragici greci alle tragedie shakespeariane, è rivolta in modo particolare all’approfondimento del teatro di prosa del Novecento; ampia è inoltre la produzione di spettacoli nell’ambito del cosiddetto “ Teatromovimento”(Cervantes, Goethe, Iacopone da Todi, Dario Fo) e numerosi i recital-concerto imperniati sulle tre cantiche della Divina Commedia, con particolare ricerca sulla voce e sugli strumenti percussivi.

a cura di Vincenzo Di Bonaventura

con Vincenzo di Bonaventura, Lirim Gela e Luca Giulivi alle percussioni

 Ospitale delle Associazioni  –  Grottammare Paese Alto  – 31 marzo 2019

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