KATYN

A due anni dalla morte, 9 ottobre 2016, ricordiamo uno degli ultimi contributi del grande regista Andrzej Wajda al Cinema e alla Storia.

 Mi piacciono molto Wajda e i suoi film. Non l’ho mai conosciuto ma, tanto tempo fa, a un festival di Cannes, ha dichiarato pubblicamente che sono stati i miei primi film a spingerlo verso il cinema. Cosa che mi ricorda la mia ammirazione per i primi film di Fritz Lang, che decisero le scelte di tutta una vita. C’è qualcosa di commovente, in questa continuità che serpeggia da un film all’altro, da un paese all’altro. Un giorno mi è arrivata una cartolina di Wajda, ironicamente firmata ‘Il suo discepolo’. E questo mi emoziona ancora di più in quanto i suoi film, quelli che ho visto, mi sono sembrati ammirevoli. [Luis Buñuel, “Dei miei sospiri estremi”, Rizzoli, 1983]

Katyn appartiene a quella categoria di film che danno un prezioso contributo alla conoscenza della storia, fornendo testimonianza spesso tragica, necessariamente neutrale, e per questo tanto più portatrice di verità, delle vicende umane.

Wajda realizza con un ritardo di venti anni rispetto agli anni in cui la verità emerse in tutto il suo orrore, anni ’90 del secolo scorso, un film sulle fosse di Katyn.

E’ il nome della foresta vicina al villaggio di Gnëzdovo in Polonia dove avvenne il massacro di 22.000 prigionieri di guerra polacchi, fatti uccidere su ordine di Stalin tra l’aprile e il maggio del ’40. Il dittatore russo rigettò l’accusa diffusa da radio Berlino nel ’43, alla scoperta del massacro:

È stata trovata una grande fossa, lunga 28 metri e ampia 16, riempita con dodici strati di ufficiali polacchi, circa 3.000. Essi indossavano l’uniforme militare completa, e mentre molti di loro avevano le mani legate, tutti avevano ferite sulla parte posteriore del collo, causate da colpi di pistola. L’identificazione dei corpi non comporterà grandi difficoltà, grazie alle proprietà mummificanti del terreno e al fatto che i bolscevichi hanno lasciato sulle vittime i documenti di identità.”

La notizia divenne uno straordinario mezzo di propaganda nelle mani di Goebbels e se oggi, consapevoli di ben altri stermini, oscilliamo tra orrore e disprezzo di fronte a tanta ipocrita arroganza, riusciamo comunque ad immaginare quanta presa sulle masse potesse avere, all’epoca, una notizia simile.

Naturalmente Stalin non ebbe scrupoli nel confondere le acque e presentò alla CRI un dossier intitolato “Prove infondate del massacro di Katyn”, mentre i nazisti, da parte loro, inzupparono ben bene nella vicenda cercando di girarla a tutto loro favore.

Se non ci fossero migliaia di morti  che reclamano verità e pietà, potremmo dire che, forse, Katyn, fu la prova generale di quella propensione alla manipolazione della storia che, da tutte le parti, i settanta anni successivi hanno messo a punto con mezzi molto più sofisticati.

Ma l’artista è lì che aspetta al varco, e Andrzej Wajda tanti anni dopo, nel 2007, giunto a quello che oggi sappiamo essere stato il suo ultimo decennio di uomo che molto ha vissuto e molto ha visto, parte dalla sua vicenda privata, a lungo meditata e finalmente elaborata, e decide di raccontarci qualcosa di sé.

Per rigore documentario ricordiamo che già nel 1974 Dusan Makavejev aveva girato in Canada Sweet Movie sulla stessa vicenda.

Wajda, nel 2007, è giunto alla saggezza della vecchiaia, stanca ma depurata, il passato è sempre vivo ma ha smesso di nuocere.

Il padre, ufficiale della cavalleria polacca, era finito in quelle fosse e la madre ne aveva aspettato il ritorno per tutta la vita.

 

Ci sono stati archivi segreti nella storia del ‘900 che si è tardato molto ad aprire, la lista è lunga e ogni più piccola parte di mondo ha i suoi conti da fare con le proprie terribili memorie, spesso rimosse o occultate dalla ragion di Stato.

Merito indiscutibile del cinema è stato aver prestato all’indagine storiografica uno strumento formidabile di ricerca, analisi e diffusione, e Katyn  fa parte di quel percorso dell’orrore, disseminato in vario modo per tutto il secolo scorso, di cui avremmo rischiato di sapere altrimenti ben poco.

Fosse comuni in cui nel ’40 furono buttati i corpi di 22.000 tra ufficiali dell’esercito polacco e civili, rastrellati soprattutto fra gli intellettuali e le classi dirigenti, divennero il macabro gioco a rimpiattino delle varie propagande di regime: i nazisti accusarono i comunisti del massacro, e non certo per amore di verità o amicizia verso il popolo polacco, successivamente toccò ai sovietici sbandierarlo come misfatto nazista per alimentare l’odio e tenere a bada la Polonia, una nazione cancellata dalla carta geografica all’indomani del patto Molotov-Ribbentropp del ’39.

Curata nel misurato dosaggio delle emozioni, la presenza femminile è predominante nei momenti chiave del film, ed è portatrice di quella pietas che non trema nè arretra davanti alle prove più estreme (la morte e la mancata sepoltura, la scelta di non farsi complice della menzogna, la forza di guardare un’ultima volta la luce prima di essere sepolte nella cella sotterranea).

Sovrasta l’orrore che coglie di fronte allo spettacolo della béte humaine, il richiamo forte a quelle leggi non scritte che dal teatro di Sofocle arriva a oggi, attraverso i codici linguistici del cinema, agli uomini che non rinunciano a credere che esista una legge morale sopra di loro, “dal dì che nozze e tribunali ed are diero alle belve umane d’esser pietose di sé stesse e d’altrui”. (U.Foscolo.I sepolcri)

 

Katyn

Polonia 2007 durata 118′

Soggetto Andrzej Mularczyk dal romanzo Post mortem

Regia Andrzej Wajda

Musica Krzysztof Penderecki

Fotografia Pawel Edelman

Con Artur Zmijewski, Maja Ostaszewska, Andrzej Chyra, Danuta Stenka, Jan Englert

 

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