King Kong di Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack

1933. L’America si sta scrollando di dosso gli incubi della Grande Depressione, nel novembre del 1932 i Democratici, rappresentati da Franklin Delano Roosevelt, hanno vinto le elezioni presidenziali dando inizio al New Deal, iI cinema è pronto a servire i suoi sogni e le sue illusioni, spesso a buon mercato, il muto è storia chiusa, l’urlo di King Kong fa tremare le sale e le signore impallidiscono aggrappandosi tremanti ai mariti o a chi per loro.

E’ nato il più esagerato, fascinoso, terrificante e romantico dei mostri cinematografici, il re dell’isola del Teschio, Kong, detto anche King.

Kong […] è l’unica creatura al di là di questo muro ad essere più che una semplice bestia. Un errore della natura, certamente, come gli altri, ma tuttavia un errore quasi perfettamente riuscito. E in quella sua grossa testa c’è un guizzo, che non so spiegare. Con Ann si comporta in modo particolare, come se provasse qualcosa per lei. Ma prima di aggiungere altro, signore e signori […] lascerò che vediate con i vostri occhi la creatura più enorme su cui abbiate mai posato lo sguardo. Era un tempo il re e il dio del suo mondo, ma è arrivato qui come un prigioniero, come fenomeno da esibire in pubblico, per compiacere e soddisfare l’insaziabile curiosità di noi esseri umani. Signore e signori! Ecco a voi Kong, l’ottava meraviglia del mondo.”

Così Carl Denham (Robert Armstrong ), nel film produttore e regista, presenta Kong al pubblico assiepato nel teatro più famoso di New York City.

L’evento ha galvanizzato le masse, signori panciuti in doppio petto con signore al seguito hanno pagato fior di biglietti per vederlo, la storia avventurosa della cattura del mostro si è diffusa, Denham e i sopravvissuti della troupe stanno per realizzare il loro sogno: far tanti soldi.

Tutto era partito da lì, girare un film splendido e temerario, salpando verso l’isola del Teschio in terre inesplorate, per tornare a casa e diventar ricchi.

Hollywood era la nuova Mecca, bastava imbroccare il filone giusto.

Mancava una donna, un cast tutto maschile non reggeva, e Ann ( Fay Wray), scoperta da Denham a rubare una mela al mercatino, è quel che serve. La povertà e la fame sono quel che sono e un ingaggio è una manna per la fragile biondina che non fa troppe domande, s’imbarca con la troupe e, come si suol dire, va incontro al suo destino.

Recitare in King Kong nel ruolo di Ann fu un momento di gloria effimero per la giovane Fay Wray, in seguito, se non sparita dagli schermi, fu relegata a ruoli minori.

Ginger Rogers e Jean Harlow, le bionde esplosive prima dell’era Marilyn, avevano rifiutato la parte, lei era bruna ma volle recitare a tutti i costi con una parrucca bionda e re Kong non si accorse di nulla.

Fedele all’assioma:”Gli uomini preferiscono le bionde”, il gorilla dal volto umano andò anch’ egli incontro al suo destino, irretito dalla nuvola d’oro della bionda fanciulla, e lui che era il re dei re, lo squartatore di dinosauri e boa giganteschi, finì a testa in giù, spazzato via da un biplano, che lo scaraventò in strada dall’Empire State Building dove era salito di gran fretta con la sua bella stretta nella manona pelosa.

Il film, capostipite di una lunga serie di remake, ha divertito le platee di tutto il mondo e continua a farlo, da quasi un secolo.

Merian C. Cooper (ex cineoperatore dell’esercito americano) con Ernest B. Schoedsack e il produttore Willis O’Brien non fece fatica a convincere i vertici della RKO (la più importante casa cinematografica dell’epoca) che un film su un gorilla mostruoso era ciò che il pubblico stava aspettando. Edgar Wallace stava ancora lavorando alla sceneggiatura nel 1932 con il titolo di “The Beast“.quando morì e la sceneggiatura finale si discostò molto dalla sua, ma Merian C. Cooper volle sempre che i crediti fossero suoi.

Ma perché tanto successo e cos’ha quel pupazzone gigantesco che si dà pugni nel petto e squarcia l’aria con il suo ruggito (a proposito, era proprio il ruggito di un leone quello che i tecnici del sonoro gli applicarono) da restare incollato nell’immaginario di grandi e piccoli in ogni angolo del mondo?

Icona del cinema d’avventura, ha segnato la strada per tante derive successive (v. Godzilla) ma l’archetipo indiscusso resta quello del ’33. Da quel film, con tutte le sue ingenuità e le artigianali soluzioni di regia, nonostante la realizzazione di effetti speciali che oggi fanno sorridere,  emana un fascino innegabile, pionieristico quasi.

Forse i produttori non ne percepirono le potenzialità, o forse, come spesso capita, un’opera nasce per una sua urgenza intima di cui non si coglie subito il senso.

Però il senso lavora e nel tempo si delinea, mostrandosi.

Quel linguaggio per immagini  in movimento, il cinema,  era quasi al suo quarantesimo compleanno, stava entrando nell’età matura, e  benchè tanto avesse fatto già capire di sé fin da quando era in fasce,  ora stava lanciando un messaggio nuovo e dirompente.

Terrorizzando o intenerendo, ridendo o piangendo, diceva all’umanità seduta estatica a guardare lo schermo:”Guardati”.

Umanità estatica come gli indigeni dell’Isola del Teschio, in religiosa attesa che compaia re Kong, la bestia invincibile, la scimmia nuda, il selvaggio padrone del mondo a cui si devono doni e sacrifici umani.

Un momento significativo del film è quando qualcuno dice:

Lui è Kong. È il re di questo posto. Per loro è come un dio. Kong è un buon re. Se ne sta sempre per i fatti suoi. Questa è casa sua. Noi qui siamo degli ospiti, e non si va a casa degli altri a sganciare bombe, a meno che non si voglia attaccare briga.”

Basterebbero queste parole per proiettare King Kong nell’Olimpo delle metafore disattese e profetiche.

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Ma volendo restare allo spettacolo e goderne tutta la bellezza un po’ selvaggia e primitiva, va detto che magnifiche sono le riprese dell’approdo nell’Isola e dell’incontro, quasi scontro, della troupe piuttosto scalcagnata con gli indigeni, interrotti durante la cerimonia in onore di Kong.

La tensione cresce fino al rapimento della fanciulla “dorata” da offrire al re, e la piccola figurina biondo-rosata catturata da un commando di indigeni è un puntino fra piume, colori, lance e arredi della tribù .

L’arrivo di Kong sulla scena è un coup de théâtre da Oscar.

E’ il momento centrale del film, il  racconto concitato della cattura di Ann, chiusa e scalpitante nella morsa della grande mano del gorilla, seguito dalla  lotta del bestione con tirannosauri e animali preistorici vari, dall’inseguimento da parte degli ometti smarriti e inadeguati della troupe, fatti fuori uno ad uno tranne pochi. Scene di forte impatto che però scorrono asettiche, il delicato stupore amoroso di re Kong alle prese con il candore eburneo della fanciulla vestita di rosa annulla l’orrore, impedisce di pensare a sangue e morte.

Qualche lembo del vestito svolazzante della fanciulla viene staccato dalle sue rozze dita, e la meraviglia toccherà i vertici nei grandi occhioni spalancati del primate. La censura all’epoca ebbe il suo da fare e vari metri di pellicola furono tagliati e in seguito ripristinati, l’America puritana era sempre in agguato, anche sulle favole.

Lo scontro fra Kong e i suoi inseguitori alla fine si conclude col trionfo della civiltà, fortunosamente i bianchi superstiti alla carneficina recuperano Ann e  con qualche bomba ben mirata addormentano Kong e lo trasportano a bordo.

Inizia il terzo momento del film, il più noto, il pezzo che più fa riflettere.

La scimmia gigante in cima all’edificio più alto del mondo che combatte con  i biplani dopo aver deposto dolcemente la fanciulla sul cornicione perché non si faccia male è da antologia.

Dopotutto King Kong desiderava solo avere una compagna con sé per placare la sua eterna solitudine. Poco importa se nell’impresa ha fatto disastri, divelto rotaie ferroviarie, terrorizzato la gente mostrando il suo faccione alle finestre del grattacielo, tirato fuori dal letto con le sue unghione come una lumaca dal guscio una poverina terrorizzata che poi ha buttato giù in strada.

Non ha chiesto lui di venire a New York City, si è liberato dalle catene con cui l’uomo bianco lo stava mostrando come un fenomeno da baraccone, si è ripreso la sua donna ed è andato via.

Sull’Isola del Teschio l’aveva protetta dagli assalti dei mostri, ora i mostri sono altri, molto diversi, e tanto più pericolosi.

Infatti avranno la meglio, l’ala del biplano lo sperona e dalla guglia dell’Empire State Building a cui è rimasto aggrappato il nostro re Kong finisce sul selciato di Manhattan, all’angolo tra la Fifth Avenue e la West 34th Street.

Così vince la civiltà e il selvaggio arretra.

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King Kong

USA 1933  durata 95′

Regia di Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack

Con Fay Wray, Robert Armstrong, Bruce Cabot, Frank Reicher, Sam Hardy, Noble Johnson

 

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