Koko, le gorille qui parle di Barbet Schroeder

Ha notato il poco rumore prodotto dalla telecamera Éclair ed ha agito in modo diverso quando ha saputo di essere filmata. Era una vera star, un animale da cinema, un’attrice ”.

Quando si dice “ è un animale da …” intendendo “ sembra nato per fare questo”.

Bene, Koko, la gorilla che sapeva “parlare”, era un animale vero e un’attrice consumata, e se lo dice Barbet Schroeder possiamo crederci.

Per i pochi che non lo sanno Koko “… morta, il 19 giugno 2018, era il più famoso gorilla del pianeta. Nata nel 1971 – era un esemplare femmina – allo zoo di San Francisco, Koko morì nel sonno alla veneranda età, per la sua specie, di 47 anni. Ha vissuto la maggior parte della sua vita a Woodside, in California, presso la riserva della Gorilla Foundation, tra le montagne di Santa Cruz. Era conosciuta per aver appreso un gran numero di segni, più o meno simili a quelli della lingua dei sordomuti americani (American Sign Language o ASL), che era in grado di decifrare e di utilizzare in modo appropriato: secondo Patterson, la sua istruttrice di una vita, Koko era in grado di elaborare più di 1.000 segni” (da Focus online).

Altre notizie interessanti sullo stesso sito:

https://www.focus.it/ambiente/animali/francine-patterson-e-morto-koko-il-gorilla-che-parlava-con-i-segni

ma vederla in azione nel film, quando era poco più che una “bambina”, quasi all’inizio della sua storia eccezìonale (il film è del 1978) è cosa che riuscì ad incantare anche quel tipaccio di Bukowski.

Cosa c’entra Bukowski? Charles Bukowski era amico di Barbet Schroeder e così racconta nel suo diario “Shakespeare non l’ha mai fatto” di quando il regista andò una sera a trovarlo e portò la bobina del film appena girato.

Immaginiamo quante bottiglie si siano scolati durante la visione, era tutto così divertente, insolito ed esaltante che bisognava per forza festeggiare. L’hanno proiettato sul muro, nessuno di loro sapeva usare un proiettore e per fortuna le pareti, al Park Hotel  di Mannheim, erano bianche. Lui, Charles, si era autonominato “versatore di vino”, l’altro alla fine riuscì a proiettare.

Koko – racconta Bukowski – era una gorilla femmina che conosceva 300 vocaboli del linguaggio dei segni americano. […] Barbet ha detto che il momento che preferiva era quando Koko diceva “non lo so”.

E’ molto difficile descrivere il livello di esaltazione che questo documentario provocava man mano che le barriere di comunicazione venivano abbattute. Credo che per me il livello più alto sia stato quando Koko ha chiesto di indossare un maglione per la sua passeggiata.

“Questo?” le hanno chiesto

“No” ha detto

“Allora quale?”

“Quello rosso” ha detto Koko.

Era come parlare a Marte, era come parlare a un albero. Era stupendo, spaventoso, glorioso. Se Dio c’era era come giocargli un brutto scherzo e forse lui ci dava la sua benedizione.

Comunque era roba eccezionale e io stavo bevendo troppo.

Comunque, se questo film non sfonda, il genere umano è messo ancora peggio di quel che credessi.

E questo è il parere di un grande poeta che finì la serata bevendo e dicendo a Barbet e Carl (l’altro amico presente) che grandi, magici e folli compagni fossero, e che la fortuna di conoscerli era come il sole che risplende sempre, ecc. ecc.

Ed era vero.

Unico appunto, per cui lo perdoniamo ampiamente, è la definizione di documentario. Ma Bukowski non era uomo di cinema e si può capire.

Dunque, mettiamoci davanti a questo lungometraggio, 77 minuti, la misura ideale, Schroeder dispone sapientemente il materiale così da non sembrare un servizio del National Geografic o similari. Crea tensione, attesa, attenzione. E domande: dove siamo, chi sono, cosa fanno, cosa faranno. Insomma il repertorio tipico dello spettatore di film. E di film inconsueti. Koko è la protagonista ed è un primate di notevoli dimensioni, i tratti somatici sono quelli che sappiamo, la gestualità animalesca è ben nota, la mobilità acrobatica c’è tutta.

E la nostra diffidenza pure.

Si va avanti, di tanto in tanto Schroeder inserisce una mini intervista a qualche super esperto che ci racconta qualche dato scientifico.

Da ultimo, ed è il tocco di genio, l’intervista al direttore dello zoo di San Francisco che voleva a tutti i costi riprendersi Koko sottraendola a Penny, la bionda, dolcissima madre putativa, rigettandola allo stato selvaggio.

Non sappiamo per quale strana fatalità, il tizio ha proprio la faccia del cattivo anche un po’ imbecille, durante l’intervista non possiamo che odiarlo, soprattutto dopo l’amore e il bello che abbiamo visto fino ad allora fra Penny e Koko.

Dunque non documentario, ma film a tutti gli effetti, con protagonisti bravissimi, di un’empatia folle, si arriva alla fine, s’innesca il loop e si guarda di nuovo.

Su Schroeder non aggiungiamo molto più di quanto già detto per l’altro lavoro su Idi Amin Dada, l’amicizia con Bukowski è in linea con il personaggio che di sé dice :” Il cinema mi ha permesso di dedicare la mia natura compulsiva e avventurosa a una nuova materia ogni tre anni: potere, masochismo, primati e istruzione , e ora Charles Bukowski, che è stato il soggetto del progetto di documentario The Bukowski Tapes (1982-1987)” e aggiunge “Non mi piace pensare di fare immagini solo se si adattano a quelli che si suppone siano i miei temi

Alfabeto cinematografico mutevole, cangiante, personaggi asociali, le dinamiche del maestro-apprendista, l’ibridazione di documentario e finzione, la natura vagabonda di Schroeder genera ogni volta la meraviglia ben sintetizzata dal giudizio di Néstor Almendros, direttore della fotografia dei suoi primi cinque lungometraggi:

Artista particolarmente interessato all’elemento di avventura che esiste in tutte le opere di creazione. “

E creare comunicazione tra l’uomo e l’animale era l’avventura più eccezionale che si potesse immaginare.

Koko e Penny vivono in simbiosi. Di lei, sempre sorridente, paziente, materna, si dice che viveva 24 ore con il gorilla, ma è un vivere leggero, allegro, a volte problematico quando Koko si arrabbiava, ma quando era triste e l’abbracciava come una bambina per farsi consolare siamo veramente oltre l’immaginabile. Averlo reso credibile, aver tolto ogni traccia di scientificità, pur raccontandoci in dettaglio i processi straordinari di apprendimento dell’animale è grande regia.

“Il problema principale tra uomo e animale è sempre sulla comunicazione. è bello vedere come Koko ha chiesto a Penny di fare qualcosa. Credo che in realtà gli animali vogliano interagire con noi. semplicemente non sanno come farlo”

E mentre seguiamo le fasi della convivenza della donna con il gorilla ci affezioniamo a Koko con quel processo di identificazione che il grande cinema ottiene sempre, e la domanda finale che pone il regista: “gli animali con emozioni simili a quelle umane potrebbero godere degli stessi diritti?” ci sembra la più appropriata.

Insegnare a comunicarle, queste emozioni, questo è il grande lavoro della dottoressa Patterson. E quando Koko ha imparato a farlo, rispettarle.

Una grande lezione per l’umanità, presupponendo che impari innanzitutto a rispettare sé stessa.

Koko, le gorille qui parle

Francia 1978 durata 78′

Regia di Barbet Schroeder

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