L’eternità e un giorno di Theo Anghelopoulos

 

In Eternity and a Day, Alexandre (Bruno Ganz) si chiede: “Quanto dura il domani?” La risposta è il titolo del film, due parole che solo in apparenza sembrano in rotta di collisione. Il tempo limitato che ci è assegnato viene continuamente riassegnato, certo ad altre forme di vita, di sicuro con altre occasioni.  

Perché niente ha funzionato come ci aspettavamo?”

E’ la seconda domanda del film, e con la prima sembra una di quelle che fanno i bambini a cui i grandi non sanno rispondere.

Ma la vita è farsi domande così, da bambini.

Alexandre, uomo della buona borghesia ateniese, torna in patria ormai anziano e malato allo stadio terminale di un cancro, dopo una vita passata in viaggio a raccogliere il successo di poeta e romanziere. Sente di aver vissuto una vita incompleta, ora carica di rimpianti e cose lasciate incompiute.

Si aggira fra i ricordi: la moglie, “bella come una giornata di sole”, sempre amata ma sempre lontana, la figlia, cresciuta sconosciuta, i parenti, che arrivano festosi, i brindisi, i balli, e il mare, quel mare greco “da cui vergine nacque Venere”, che in Anghelopoulos è una presenza ineludibile, un alveo materno pieno di luce, che ora lui può solo ricordare.

La breve sequenza finale della vita di Alexandre si trascina nell’ombra e nel freddo, la luce e il sole sono cose lontane.La realtà è ombra, strade bagnate dalla pioggia, nuovi incontri casuali, miserabile vita di uomini che hanno perso, o forse non hanno mai avuto, quella filantropia di cui parlava Plutarco un giorno lontano.

Bambini clandestini da rimpatriare, in fuga da razzie di poliziotti. Altri catturati come cani randagi e venduti a coppie senza figli. Alexandre ne salva uno per caso, un lavavetri albanese, spinto da un’umanità che sopravvive o perché ha bisogno di una redenzione personale. Non sa che farne ma non riesce a lasciarlo. Lui, solo nella sera fredda, il bambino, senza patria e nessuno che lo cerchi, relitti.

Nella notte una breve Odissea li mette sulla strada verso il confine con l’Albania, ma il quadro spettrale che vedono oltre il recinto li fa fuggire. Tornano indietro, lasciano la macchina e salgono su un tram. Sembrano bambini felici di guardare dai finestrini. Un gruppo di musici arriva e suona un pezzo, forse di Bach, fra i sedili; un ragazzo con una bandiera rossa sale dopo una manifestazione e si siede in un angolo.

Il bambino è un piccolo saggio che conosce parole sconosciute da Alexandre e le raccoglie in giro per regalargliele. Lui gli racconta del poeta greco vissuto in Inghilterra che, un secolo prima, venne in Grecia per imparare la lingua, solo cosi poteva parlare delle aspirazioni alla libertà di quel popolo. E scrisse il loro inno nazionale. La loro diventa una piccola società di mutuo soccorso, la mano tesa quando non c’è altro, il panino quando si ha fame.

Poi il piccolo andrà via, non sarà solo, non dovrà aver paura come oggi, gli dice Alexandre, ha la vita davanti che l’aspetta, e quella strada la dovrà percorrere. Il vecchio poeta, invece, non ha più strade, fermo al semaforo non si muove, resta lì per ore. Poi decide, può tornare solo al passato.

Dall’appartamento vuoto nella grigia strada di Atene basta aprire la finestra e immaginare il mare; sono tutti là, la madre che culla la figlia neonata, il gruppo festoso degli amici, e Anna, la sua donna dal vestito bianco a fiori azzurri che lo bacia e alla domanda di Alexandre: “Anna, cos’è il domani?”  gli risponde: “L’eternità e un giorno”.

Questo film non piacque, alla critica nostrana nè a quella americana, e la Palma d’oro e il Premio della giuria ecumenica al 51° Festival di Cannes non bastarono ad accreditarlo. Se possiamo concordare sul giudizio negativo rivolto all’ultimo film, La polvere del tempo, non riusciamo a capire le ragioni di questo interdetto a L’eternità e un giorno.

Anghelopoulos ha girato altri capolavori, forse questo non è fra quelli, ma la sua capacità di fondere Storia di popoli e individui, dimensione intimistica e realtà effettuale, lirismo poetico e senso frustrante di un tempo svuotato di bellezza, sembrano senza cedimenti.

Ispirato alla raccolta di racconti “L’exil et le royaume” di Albert Camus, il senso di insoddisfazione e fallimento di Alexandre è appunto quello dei protagonisti di Camus, sul margine di una vita di cui chiedere solo a sé stessi il resoconto. Naturalmente di un film va osservata la sintassi peculiare, diversa dal libro, e il conto finale non delude.

Bruno Ganz è il grande interprete che dà al suo personaggio tutta la dimensione tragica di un uomo in decomposizione fisica e spirituale, senza mai cadere nel manierismo e nel compiacimento, attraversando il suo tempo logoro e svuotato come ogni essere umano farebbe, nella vita di tutti i giorni.

Il bambino è perfettamente complementare a lui, un incrocio chiastico, tanto stanco Alexandre quanto vitale il piccolo, tanto grigio e cadente l’uomo quanto colorato e scattante l’altro.

Destini diversi, antitetici, li hanno fatti incontrare, le fortune del primo e le privazioni del secondo sono gli apici del gioco incrociato della vita, al centro si sono trovati attraverso le parole, sono state quelle ad avvicinarli. Questa strana coppia ci accompagna per tutto il film, suscitando tutt’altro che la noia che alcuni lamentano.

Infine si dissolve.

Un senso alla sua vita forse il bambino lo darà, Alexandre poteva farlo e non l’ha fatto, come succede a molti.

E la ragione è solo in noi stessi, o “nel grembo dei Celesti si posa”.

L’eternità e un giorno

Italia/Grecia 1998 durata 124’

Titolo originale: Mia eoniotita ke mia mera

Regia: Theo Anghelopoulos

Cast: Bruno Ganz, Isabelle Renauld, Fabrizio Bentivoglio, Achileas Skevis

 

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