L’ultima risata di F. W. Murnau

Nella Repubblica di Weimar, in una fase di ripresa economica parziale quanto ingannevole dopo la grande depressione dell’immediato dopoguerra, è al lavoro la squadra UFA che ha come produttore esecutivo Erich Pommer, Carl Mayer sceneggiatore, Robert Herlth e Walter Röhrig scenografi e Karl Freund direttore della fotografia.

L’unione di queste forze con la regia di Murnau produce un capolavoro di sontuosa forza visiva e poetica, pietra miliare nella storia della cinematografia tedesca, sia per l’audacia nell’uso della macchina da presa (Freund girerà successivamente Metropolis nel ’26 con Fritz Lang e poi sarà in America nel ’30 per Niente di nuovo sul fronte occidentale e collaborazioni con Huston e Bogart), sia per il superamento degli stilemi espressionisti in nome di un “nuovo realismo” che punta l’attenzione sui problemi sociali e crea la cosiddetta “città-film”, in una varietà di ambienti che la macchina inquadra, mobile e libera.

Sono la hall dell’hotel Atlantic dove la storia inizia e finisce, il cortile di periferia della povera gente, le strade della città sotto la pioggia, i taxi e gli uomini indaffarati e distratti, la toilette dell’hotel dove si consuma la descensio ad Inferos del protagonista, mentre la camera che “sa” e “racconta” chiude lentamente il suo obiettivo e le luci si spengono.

La lezione di Reinhardt e dei suoi Kammerspiele nel Deutsches Theater a Berlino è ormai ampiamente assimilata anche dagli ambienti del cinema e la critica è unanimemente concorde nel dichiarare che “il narratore autentico di questo film è – probabilmente per la prima volta nel cinema tedesco – la macchina da presa”.

Raccontare una storia attraverso la lingua della mdp era l’orgogliosa sfida di molti autori del muto, ma Murnau va oltre ed elimina qualsiasi didascalia, fatta eccezione per i due commenti all’inizio e prima dell’epilogo e il testo della lettera di licenziamento del protagonista.

La storia è costruita da inquadrature, angolazioni, movimenti ed espressioni del viso, è illustrata da una gestualità colta nel suo farsi segno anche di appartenenza sociale (superba la scena delle comari del cortile che si rimpallano il pettegolezzo sul licenziamento del portiere o le sequenze in cui ricchi borghesi ambosessi si muovono leggeri in interni di sfarzoso kitch, in forte contrasto con la gravità traballante e lenta dell’uomo umiliato e offeso).

Ispirandosi al racconto Il cappotto di Gogol, Murnau ne adatta lo spirito caustico e la satira sociale alla realtà di una Germania percorsa da inquietanti correnti carsiche, un mondo dove l’assassinio di Matthias Erzberger e Walther Rathenau di due anni prima (il film è del ’24 Der letze Mann ) sembrava aver saldato i conti con i “responsabili” del Trattato di Versailles, restituendo al popolo quell’orgoglio perduto che aprirà molti crediti, come si vedrà troppo tardi, alla propaganda nazista.

Il grande Emil Jannings, interprete di Pietro il Grande, Enrico VIII, Luigi XVI, Danton e Otello,l’indimenticabile Emmanuel Rath di Der blaue Engel, è qui il portiere dell’Hotel Atlantic, fiero nella sua livrea gallonata e col suo fischietto con cui dirige il traffico dei facchini e delle auto che scaricano bagagli e clienti.

Murnau lo riprende dal basso e il profilo è statuario, gli affianca figure più basse e mingherline fino al momento del tracollo, da quel momento sarà come ripiegato su sé stesso, un manichino vuoto sovrastato dagli altri.

La macchina lo segue da vicino e si sostituisce al suo sguardo, noi vediamo ciò che egli vede, la porta girevole è il suo regno e l’obiettivo riprende il mondo circostante attraverso le lastre di vetro da cui traspare la vita di strada, il movimento dei pedoni e delle auto, il nervosismo della vita urbana e la riflettono nella hall, fra le poltrone e gli ascensori in movimento.Il portiere è il trait d’union, la sua uniforme ha il carisma di un feticcio.La tragedia è tutta lì, nell’esserne privato per raggiunta anzianità di servizio.

Ha scritto Lotte Eisner nel ’64 “La sua tragedia non poteva che essere una storia tedesca, poteva accadere solo in un paese dove l’uniforme (come nel momento in cui il film è stato fatto) era considerata più di Dio”.

Friedrich Walter Murnau

Una lettura pertinente ma forse un po’ forzata, chiunque veda il film pensando alla sua sorgente letteraria e cogliendo la carica umana del protagonista, l’analisi dei moti dell’animo e le dinamiche psicologiche che Murnau riesce a far percepire, trova molto più che una storia solo tedesca, anche se in quell’humus si è formata. La perdita dell’uniforme è la caduta nel non senso di una vita dove non si ha più un ruolo sociale, dove si è un’etichetta e, persa quella, si diventa un manichino anonimo.

La sorpresa del finale che ribalta la realtà ha tutto il sapore della favola, del fuori programma, del dramma satiresco, necessario dopo la trilogia tragica, a catarsi avvenuta.

Scorre la didascalia:

Qui dovrebbe terminare il film. Nella vita reale, lo sfortunato vecchio avrebbe atteso ancora poco più che la morte. Ma lo scrittore ha avuto pietà di lui e ha fornito un epilogo quasi inverosimile”.

Per i fortunati spettatori della copia di recente egregiamente restaurata l’epilogo deve restare una sorpresa, in fondo si tratta di un film, Die letzte Mann“, L’ultimo uomo.

Chi ha tradotto il titolo con L’ultima risata meriterebbe …  gli arresti domiciliari!

versione integrale

L’ultima risata

titolo originale: Der letze Mann

Germania, 1924, durata 98’

di Friedrich W. Murnau, con Emil Jannings, Maly Delschaft, Max Hiller, Emilie Kurz, Hermann Valentin

 

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