The Face Of Another di Teshigahara Hiroshi

Annuncio al mondo questo fatto di cronaca di primo piano: è nato un nuovo vizio, un’altra vertigine viene concessa all’uomo: il surrealismo, figlio della frenesia e dell’ombra. Entrate entrate, cominciano qui i territori su cui regna l’istantaneo…”   gridava al mondo Aragon nel 1926.

La musica diegetica di  Takemitsu Toru, minimalismo e volteggi orchestrali a ritmo di valzer in compresenza straniante per una delle sue collaborazioni cinematografiche più significative.

In che modo conosciamo ciò che crediamo di conoscere?

Tanin no kao ripropone la domanda che l’uomo non finirà mai di porsi, di volta in volta tentando enunciazioni nuove e prendendo nuove strade, sbagliando direzione e tornando sui suoi passi, registrando catastrofici fall out o, più ragionevolmente, riconoscendo la propria inadeguatezza a rispondere.

The Face Of Another, il titolo internazionale semplifica nell’intento di rendere divulgativo il contenuto, ma il senso corretto è “ nessuno”, il vecchio Oùtis di omerica memoria.

Dunque nel titolo la chiave prima e ultima di lettura.

Teshigahara Hiroshi, dopo la Donna di sabbia (Suna no onna), ci porta in un territorio ancora più destabilizzante delle dune di sabbia frananti sulla coppia costretta a vivere sotto terra.

Qui la disgregazione è molto più inquietante, essendo in ballo l’identità fisica e psicologica dell’individuo, in una parola la sua sopravvivenza. Tra fantascienza e horror, Tanin no kao adotta uno stile sperimentale perfettamente funzionale all’assunto tematico, il volto e il suo doppio, identità e perdita del “sè”, forme dell’alienazione e conformismo sociale.

L’adozione di trovate espressive, come far parlare il teschio del protagonista ai raggi X in apertura, lo scandaglio nello studio del chirurgo/psichiatra, lontano epigono del Doktor Faust fra provette e modelli di sezioni umane da anatomopatologo, i frequenti fermo immagine che creano cortocircuiti sul flusso narrativo, il bianco e nero intenso segnato da cesure nette, prive di sfumato, tutto si muove verso una interazione globale fra le materie dell’espressione tesa a costruire un complesso sistema di significazione.

Okuyama è uno scienziato dal volto sfigurato nell’esplosione accidentale di un laboratorio chimico. Con la testa interamente fasciata da bianche bende deve decidere cosa fare della sua vita, del legame ormai corroso con la moglie, del lavoro che nessuno gli nega ma che può continuare solo dietro le quinte, del tempo da occupare in qualche modo diverso dallo stare in poltrona in vestaglia e pantofole.

La sua presenza fra gli altri non può passare inosservata.

Tra pietà e ribrezzo l’impatto col mondo esterno è intollerabile e una soluzione gli è offerta dallo psichiatra/chirurgo: incollare alla sua una faccia nuova mediante il calco perfetto, ottenuto con un materiale altamente performante da sembrare pelle vera, di un viso a scelta selezionato fra i passanti. Trovare un volto non è difficile, per soldi si rinuncia anche al proprio statuto di “essere unico al mondo”, e diecimila yen sono una cifra accettabile per un poveraccio senza arte né parte.

 

Detto fatto, Okuyama ha la faccia di ricambio e torna visibile. Il calco è perfetto, ma lo è molto meno la sua capacità di reazione a questa nuova identità.

Okuyama avverte di non essere più il sè stesso di prima, si sta attuando una progressiva dissociazione della propria personalità, la maschera segna il sopravvento imponendogli comportamenti diversi da quelli che la sua personalità precedente gli dettava.

Parallelamente a quella di Okuyama Teshigahara, in simbiosi con Abe Kobo, autore tra i più importanti del surrealismo giapponese che scriveva il romanzo nel ’62, introduce la vicenda di una giovane e bella ragazza deturpata da un ampio fibroma sulla guancia destra.

Tra realtà e rappresentazione il filo è sottile, la ragazza ripresa di profilo dalla parte bella suscita il fischio sguaiato di giovinastri che si ritraggono atterriti appena lei mostra l’altro lato del corpo.

L’incesto con il fratello, unico essere umano ad amarla e dirle che è bella, sarà l’unica alternativa possibile ad una condizione di disperata solitudine.

La morte è il prezzo della trasgressione, le maschere vanno rispettate, negarle, trascendere in qualche modo la propria identità, ha conseguenze.

 

La moglie di Okuyama, a sua volta, respinge il marito quando lui è un mostro bendato, va a letto con la sua maschera quando Okuyama la metterà alla prova.

Ma quando Okuyama l’accuserà di adulterio con sé stesso, lei rivelerà di essere consapevole di tutto quello che stava accadendo. La maschera del marito non l’ha ingannata, quel che conta è che il gioco delle parti sia rispettato. Dunque non resta che concludere che in amore, e non solo, il gioco è affidato alle maschere che tali devono restare. Viviamo grazie alle maschere, ma non dobbiamo crederle reali come, d’altro canto, non è consigliabile toglierle, resterebbe solo il mostro in evidenza.

“La maschera serve ad assaporare le emozioni della vita quotidiana. Le donne non nascondono il fatto di utilizzare il trucco, non sopportano di utilizzare una maschera che sembra reale”.

Questo dice la donna al marito andando via per sempre.

Okuyama e sua moglie, la ragazza col fibroma e suo fratello: due coppie, due forme di amore sullo sfondo di folle fredde e anonime che ondeggiano al ritmo di valzer nell’inquadratura aerea iniziale, escono a fiotti dalla metro e vengono verso la macchina come automi senza volto, nel finale.

Fra le due scene d’inizio e fine si compie il rito tragico, ma non c’è catarsi, la morte (suicidio/omicidio) è pulsione/espulsione, non concreto oggetto narrativo, piuttosto gesto umano affermato nel suo valore di rito.

E dunque, in che modo conosciamo ciò che crediamo di conoscere? Fra tutte le rappresentazioni possibili, una particolare e privilegiata è il nostro corpo. Lo percepiamo come tutti gli oggetti, concreti e non, della realtà, fenomenicamente, ma oltre a ciò lo viviamo dall’interno come autointuizione. Piacere, dolore, desideri arrivano alla nostra coscienza senza mediazione, dunque, se il corpo cambia significativamente, si trasformano anch’essi.

Quando ciò accade ci riconosciamo? E, soprattutto, ci accettiamo?

Okuyama e la ragazza forniscono la stessa risposta, cioè no. La morte allora non può che sopraggiungere a dipanare la matassa, omicidio o suicidio non fa differenza. Non esistono compromessi, lo sguardo dell’altro impone una maschera.Toglierla è un rischio: si nega l’altro, dunque bisogna ucciderlo, oppure neghiamo noi stessi, dunque bisogna uccidersi.

La maschera prende in prestito il tuo corpo per vivere – dice lo psichiatra a Okuyama – sono in grado di produrle in serie, una faccia, facile da dare, un mondo senza famiglia, amici né nemici, non ci saranno crimini perché non ci saranno criminali, nessuno vorrebbe la libertà perché tutti sarebbero liberi. Nessuno potrebbe scappare perché non ci sarebbe scampo. La solitudine e l’amicizia sarebbero la stessa cosa. Non ci sarà bisogno della fiducia fra le persone, non ci sarebbero sospetti o tradimenti.

Il cerchio si chiude qui, lo psichiatra torna in sè e beve la birra che ha davanti, Okuyiama lo guarda, forse senza capire, forse è tutto un sogno, un incubo, un’allucinazione.

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The Face Of Another

titolo originale Tanin no kao

di Teshigahara Hiroshi, dalla novella di Abe Kobo

musica di Takemitsu Toru

con Tatsuya Nakadai (Mr Okuyama), Mikijiro Hira (Dr Hori), Machiko Kyo (Mrs Okuyama), Miki Irie (Girl with Scar), Etsuko Ichihara (Yoko), Kyoko Koshida (Nurse), Eiji Okada (The Boss), Eiko Muramatsu (Secretary), Minoru Chiaki (Superintendent), Kakuya Saeki (Brother of Girl with Scar)

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