Nói Albinói di Dagur Kári

Un ragazzo di diciassette anni in un villaggio islandese,  Bolungarvik (957 abitanti tra cui il padre alcolizzato), oltre il confine solo la calotta polare, bianco e gelo ovunque, albino quasi da non distinguerlo dallo sfondo: è Nói Albinoi (Tómas Lemarquis), protagonista di un film che, una volta visto, non si dimentica, volti, immagini, musica (gli Slowblow, il gruppo del regista) tutto resta impigliato a lungo nel ricordo.

Candidato all’Oscar nel 2003 senza troppe speranze, nonostante il riconoscimento al Torino Film Festival, non ha avuto premi e prebende, la cinematografia islandese conosce solo la periferia del cinema, come la sua isola quella del pianeta. Poco dopo l’apparizione nelle sale il film sparì dalla programmazione, strano titolo, strana immagine in locandina, un film che non s’impone, mette in scena un quotidiano che oscilla tra incantesimo e realismo, un mondo a parte dove non si crederebbe mai di poter consumare la propria vita di solitudine totale, nel vuoto, nell’assenza, nell’anti-favola per eccellenza.

Metafora di una condizione umana straniante, è anche un racconto di formazione, ma alla pura sopravvivenza.

Al suo primo lungometraggio  Dagur Kàri  ha voluto dar forma a questa anti-favola, solo così possiamo chiamare una storia  senza storia, senza finale che non sia un vuoto girare intorno a sé stessi, quando quello che si tenta di fare finisce già dove comincia.

Ambientato nei fiordi occidentali islandesi, nel remoto villaggio tra la costa e le montagne ghiacciate il mondo inesorabilmente quieto trasmette solitudine e vuoto.

Nói è un ragazzo senza futuro, dotato di talento, ma fra i ghiacci dai riflessi azzurrini del fiordo la vita non trova alimento, e dunque neppure la sua fantasia di adolescente può arricchirsi facilmente di prospettive credibili per cui vivere e lottare. L’ ambiente duro e isolato lo fa sembrare un adolescente disadattato, con poche abilità sociali e nessuna vera speranza per il futuro.

Annoiato dalla vita comune e privo di amici, Nói va alla deriva, dorme a scuola, arruffato come il buffo personaggio di un cartoon, è svegliato il mattino da una nonna strampalata che spara col fucile al cielo, il padre alcoolizzato c’è e non c’è, alla cura del figlio preferisce il karaoke in birreria, la madre è assente e Nói è solo di fronte al destino di morte che un indovino, amico della nonna, gli ha pronosticato. Quando la scuola non ne potrà più di lui si ridurrà a scavare tombe nel ghiaccio per guadagnarsi la giornata.

Forse è un genio incompreso, forse uno stupido che spara ai blocchi di ghiaccio, non sapremo mai dire se più tragico o più comico, forse è soltanto un ragazzo che passerà la vita in un microcosmo, senza sapere bene perché si trova al mondo.

Un umorismo disperato pervade tutto, Nói non prende niente sul serio, gioca costantemente: per evitare di essere risucchiato da quel mondo adulto che invece si prende molto sul serio, il suo rifugio è nella botola scavata nel pavimento di casa, e lì passa il tempo a fumare e a guardare nel suo strano occhialetto, un visore di plastica per diapositive, spiagge esotiche, mari del sud e palme da dépliant turistico.

Con Iris, la cassiera al bar della stazione di servizio del paese, Nói vorrebbe raggiungere quella spiaggia, ma il colpo di scena finale sconvolge gli equilibri del paesino e fa naufragare definitivamente il suo sogno.

Sfuggire alla propria condizione, infatti, se le pareti che ti circondano sono di ghiaccio è già un’impresa, se poi il disgelo tanto atteso porterà il disastro allora non resterà che sognare il sole delle Haway nel visore di plastica …

… e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita.

Noi Albinoi

Islanda/Germania/Gran Bretagna/Danimarca, 2003, durata 93’

di Dagur Kári

con Tómas Lemarquis, Thröstur Leó Gunnarsson, Elin Hansdóttir, Anna Fridriksdóttir

 

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