OFFICINA TEATRALE

 QUELLE CHE PRENDIAMO TRA LE BRACCIA

di H.de Montherlant

a cura di Sara Di Giuseppe (Specials post)

« Voyez-vous, il n’y a qu’une façon d’aimer les femmes, c’est d’amour. Il n’y a qu’une façon de leur faire du bien, c’est de les prendre dans ses bras”.

H.de Montherlant, Pitié pour les femmes

“LE PIÙ PERICOLOSE DI TUTTE …”

Il dramma in tre atti (1950) di De Montherlant – condensato dall’attore/regista in due parti dense e brucianti – ha la voce profonda e la bellezza “scorticante” di un’opera che ha dietro di sé il teatro borghese fra ‘800 e ‘900, e tutta la forza dirompente di un teatro filosofico che aveva toccato i suoi vertici in Pirandello: il cui Nobel era stato “il riconoscimento ufficiale di un’Europa che cambiava” (Di B.), di una letteratura e di un teatro portatori di speranza e rinnovamento. Non proprio come oggi…

Ci furono tempi di leggenda / ma sono passati…”, e nel presente deserto di slanci, fiero della propria ignorantia, sono linfa salvifica queste voci che il tempo preserva intatte e la passione dei “folli” come Di Bonaventura ci porge vive e pulsanti.

È teatro immediato questo esperimento di “teatro radiofonico” dell’ attore solista, che tutto affida alla parola, e della ragnatela dialogica del testo restituisce ogni sfumatura, esalta ogni infinitesima percezione: esso riprende modalità di ascolto incomprese da un oggi impoverito di parole e di potenza immaginativa, dove il teatro è sempre più, drammaticamente, territorio dell’inesplorato.

Ed è “teatro dell’interiorità” quello di De Montherlant: autore “difficile” nella complessità del suo pensiero, fra i classici della letteratura francese del Novecento e tuttavia controverso nella Francia della metà del secolo scorso per i suoi problematici rapporti con la critica, l’editoria, l’opinione pubblica; in ombra in Italia che lo conoscerà, nello stesso periodo, grazie all’intenso rapporto epistolare e intellettuale col critico e scrittore Luigi Bàccolo, autore di studi sulla sua opera e di articoli a lui dedicati e pubblicati sulla stampa italiana.

Uomo e scrittore d’altri tempi, ammiratore del XIX secolo, un des plus beaux siècles français” (Adinolfi), il suo è teatro che indaga, dell’uomo, la natura molteplice e contraddittoria, fragile e incongruente, e sempre cercando l’universale nel particolare, il senso profondo nell’apparente non-sense dell’esistere: perchè fissare l’éternel humain, trasmetterne il messaggio morale è per lui il compito imprescindibile affidato alla letteratura.

È a Parigi, pendant l’été de 1949, che egli ambienta Quelle che prendiamo tra le braccia.

Un uomo ama una donna che non lo ama così come lui è amato da una donna che non ama

Nulla di più comune, in questa trama che tuttavia trascende l’avventura banale di personnages tout ordinaires, per toccare il lato oscuro, la fragilità e il vuoto prima della caduta.

L’attore solista per l’occasione si fa in tre, e con la piccola magia del vocoder di vecchia e sperimentata fedeltà presta la sua voce ai tre protagonisti dell’intenso raffinato gioco teatrale: il 58enne antiquario Ravier (elegante, snello, barba sale e pepe, che dimostra più dei suoi anni); M.lle Andriot, 60enne sfiorita, collaboratrice di Ravier che ama con vocazione rinunciataria e ostinata cecità; la bella M.lle Christine Villancy, diciottenne di modesta condizione economica, oggetto del desiderio e centro dell’ossessione sensuale dell’attempato antiquario, ricchissimo, potente [“… tous les grands musées du monde ont quelque chose qu’ils ont acheté chez moi”] e tanto attirato dalla grazia e dalla purezza di Christine quanto indifferente alla devozione della dimessa signorina Andriot.

 “Vi interesserebbe vedere il mio Rubens?… Durante l’occupazione i tedeschi hanno cercato con ogni mezzo di acquistarlo… ne ho ben riso!”: la seduzione passa banalmente anche da questo, i segni del potere e del denaro esibiti davanti alla fanciulla come il pavone maschio la sua ruota, o il tacchino i suoi bargigli…

       Perfino la ripulsa della giovane attrae Ravier (… Amo l’odio che mi porta…), il quale delira fino al feticismo (Resterei ore a contemplare le sue mani…).

Non manca certo di donne, Ravier, né di successo e potere, ritiene che solo il possesso conti, che nulla ci sia oltre il piacere. Ma la conquista di Christine – troppo giovane e bella per essere anche sincera – che si darà a lui perché si adoperi a favore del padre in guai giudiziari, ha il sapore del fallimento e della contaminazione, è la nemesi matematicamente consequenziale al cinismo.

La giovane donna che si offre a lui per pura convenienza è simile alla bergère falsa che il cliente di Ravier comprerà pur sapendola tale (“Non mi darà dispiacere, non importa, lo prendo perché ne ho voglia”). Come il suo cliente, Ravier sa che possiederà un “pezzo falso”: quasi non vorrebbe sedurla perché ne ama la purezza – Ti amavo innocente, ti adorerò corrotta – e perché forse il culmine dell’amore è nell’immaginazione, ma occorre che la sua ossessione sia appagata (“Che io la prenda e la ingravidi una buona volta, e che sia finita!” aveva detto al culmine del suo delirio).

Fuori pericolo, forse, perché “ci sono quelle che si prendono tra le braccia” ma ci sono “Le più pericolose di tutte: quelle che non prendiamo tra le braccia” e, in fondo, “una cosa nasce nel fango e non diviene peggiore di un’altra che è nata nelle stelle”.

E tuttavia questo “apostolo del piacere” non ha che il vuoto davanti a sé, la caduta è inscritta con precisa geometria nel disegno di questa desolazione erotica dove la comunicazione con l’oggetto del desiderio è un gettare “ tutto nell’abisso come se parlassi a un pianeta sconosciuto”.

Così come per gli altri protagonisti, non vi sono uscite di sicurezza, essi si inseguono senza incontrarsi, ciascuno rinchiuso nella propria trama di cinismo. Non c’è altra conclusione che quella, desolata, del protagonista: Les jeux sont faits… Malheureux sans toi ou malheureux avec toi.

E l’appetit de bonheur, la fame di felicità non può mai passare per la sazietà.

Jacques-Émile Blanche, Ritratto di Henry de Montherlant (1922), Musée des Beaux-Arts de Rouen.

Monumento innalzato alla solitudine umana” (Adinolfi), l’opera di Montherlant lo è particolarmente qui, nella rappresentazione dell’amore che non la soddisfazione dei sensi nè la più elevata tensione spirituale sottraggono all’insoddisfazione di ciò che non è mai raggiunto. Questi personaggi, alle prese con il lato fragile e oscuro di sé, amano “senza reciprocità, amano nel silenzio e nell’orgoglio” e tanto l’appagamento dei sensi quanto la ricerca d’assoluto nell’altro sono destinanti ad un uguale naufragio.

Vi è tuttavia un’esigenza forte di dignità e nobiltà nell’esplorazione dell’uomo che Montherlant conduce e che vede realizzarsi – sotto un cielo vuoto, privo di prospettive metafisiche – solo attraverso la letteratura: ad essa è affidata, in opposizione alla ”sciatteria del mondo contemporaneo”, la costruzione di quella moralità universale che le culture antiche seppero realizzare nelle forme più alte.

La scelta del suicidio, che chiude il cammino di Montherlant nel 1972, è l’estremo atto di fierezza di un intellettuale convinto che l’uomo “è ciò che lascia di sé”. Aveva amato con passione la cultura latina su tutte, vi vedeva rappresentato l’uomo nella completezza interiore che si sottrae al nulla e all’oblio: nessun miglior omaggio alla sua statura intellettuale e umana, di quello dei due scrittori suoi amici che vollero spargerne le ceneri dove più netta era l’orma di quella cultura e di quel pensiero.

A Roma: nel Tempio di Giano, nel Tempio della Fortuna Virile, e nel Tevere.

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Gruppo teatrale AOIDOS

Riscrittura scenica di Vincenzo Di Bonaventura

Liberamente tratta dall’opera di Henry de Montherlant nella traduzione di Camillo Sbarbaro

con Vincenzo di Bonaventura in Radiofonia teatrale

Ospitale delle Associazioni – Grottammare Paese Alto – 26 Maggio 201

 

Henry de Montherlant – cenni biografici

Henry de Montherlant (Parigi, 1896 – 1972), autore amatissimo in Francia, è stato scrittore, poeta, drammaturgo e Accademico di Francia dal 1960. È stato tradotto in Italia da Camillo Sbarbaro. L’amore per la scrittura e la letteratura, che coltiva fin da bambino (compone tra i 9 e i 10 anni i suoi primi récits) e inizia dall’appassionante scoperta del mondo della storia romana, si alimenta per tutta l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza di letture innumerevoli che spaziano dalla cultura dell’antichità latina e greca alle letterature europee del secolo XIX.

Nella poderosa mole delle sue opere – che abbracciano narrativa, poesia, teatro, saggistica – la produzione teatrale occupa una parte rilevante: i suoi drammi obbediscono in parte alla struttura della tragedia classica francese, in parte si rifanno al dramma romantico nel prediligere i soggetti di carattere storico [La Reine morte, Malatesta, Port Royal, La Mort qui fait le trottoir (Don Juan) ecc.] e i temi legati all’antichità classica [Pasiphaé, La Guerre Civile].

I suoi testi teatrali rifiutano di piegare i personaggi storici alle esigenze della cosiddetta “attualità”. Lo scrittore afferma che “ il rispetto che si deve ai personaggi della storia vieta di farne dei semplici portavoce del nostro tempo. (…). L’autentica attualità è in ciò che è eterno. La mia opera (…) vuol essere innanzi tutto un’opera “umana ”, che non significa opera umanitaria, ma opera che prende sul serio l’essere umano”.

La varietà e profondità dei temi affrontati da De Montherlant nella sua vasta opera letteraria, la poliedricità dei percorsi interiori che ne fanno uno degli autori più studiati, controversi e amati in Francia, impediscono di ridurre in poche righe la complessità di un pensiero di rara profondità e un atteggiamento esistenziale di profonda coerenza. Emerge, su tutto, la sua fede nella letteratura come portatrice di un messaggio morale eterno ed universale.

La scelta del suicidio è coerente in lui con una concezione della vita legata in particolar modo all’antica filosofia stoica, e con un’idea della morte che pone in secondo piano gli aspetti più artificiali ed esteriori dell’esistenza ed è inseparabile dalla conoscenza dell’uomo.

De Montherlant si toglie la vita quando “il le faut”, il 21 settembre 1972, data dell’equinozio, “quand le jour est égal à la nuit […]. Et le jour de la vie et la nuit de la mort sont égaux pour moi en effet et se balancent”.

Un importante contributo alla conoscenza della personalità e dell’opera di De Montherlant in Italia è dato dalla fitta corrispondenza intercorsa durante gli anni 1959-1972 fra l’autore e Luigi Bàccolo (1913-1992), grande studioso dei testi montherlantiani, scrittore e critico letterario, profondo conoscitore delle letteratura italiana e francese, il quale pubblica anche, sulla stampa italiana, numerosi articoli e recensioni dedicati all’autore parigino.

Il corpus delle lettere è pubblicato in Italia (Henry de Montherlant – Lettere Luigi Bàccolo – Nuova Trauben Edizioni, 2018) corredato da un’ampia e approfondita introduzione a cura di Pierangela Adinolfi, che percorrendone l’epistolario mette in luce la portata culturale e umana dell’intellettuale e della sua opera letteraria.

 

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