Retrospettive – Antigone di Jean-Marie Straub, Danièle Huillet

Antigone di Sofocle (441 a.C) dalla traduzione tedesca di Hölderlin (1800-1803) adattata per la messa in scena di Brecht (1948)

La prima rappresentazione di Straub-Huillet avvenne presso la Schaubühne di Berlino nel maggio 1991, poi, per una sola performance, il 14 agosto presso il Teatro di Segesta.

Didascalia in apertura

 La memoria dell’umanità per le sofferenze è sorprendentemente breve. Il suo dono dell’ immaginazione per le sofferenze in arrivo è quasi ancora meno. È questa sfrenata insensibilità che dobbiamo combattere, poiché l’umanità è minacciata da guerre rispetto alle quali quelle passate sono poveri tentativi, e verranno senza dubbio se le mani di coloro che le preparano non saranno spezzate. (Bertolt Brecht 1952)

 Nel ’92 il film era uscito da poco e Peter Handke, scriveva su Die Zeit:

Vorrei raccontare ciò che, attraverso il film Antigone, accade qui, per me che vado al cinema. In questa sede, niente contro la televisione; ma si deve lasciare al cinema per l’eternità qualcosa di essenziale: permette ancora e sempre dei ritorni a casa molto speciali, di tanto in tanto ancora e sempre risolutamente belli – che ringiovaniscono me come il mondo.

Per questo dopo Antigone, al termine del quale non volevo dire niente, soltanto camminare, camminare e camminare, ho avuto uno dei più belli degli innumerevoli ritorni a casa: un ritorno che già era lungo, dalla rue Mouffetard, in piena Parigi, fino alla periferia notturna, – con il film lo stesso ritorno è diventato meravigliosamente lungo. E la notte mi sembrava proprio giovane, da parte a parte, comprese le auto parcheggiate di strada in strada che sembravano degli animali: notti di cinema, notti di animali da cinema.


Dicevo quindi: attraverso un tale film, la mia pace spesso pigra, ha guadagnato una forma fresca – un film potrebbe, ancora e sempre, essere arte? Noi eravamo venti, trenta miserabili spettatori nel piccolo cinema sotterraneo, dal quale ognuno è andato per la sua strada; e perché mi sembra, ora, a cose fatte, che a quel film, a differenza radicale dei film di vampiri attuali per i milioni, sia passato davanti il mondo intero? Ci sono dunque, ancora e sempre, dei film, come una volta quelli di Dreyer, di Bresson, che passano senza la magia divenuta nel frattempo vampiresca?” 

Antigone, questo antico nome di donna, da Sofocle arriva a Straub-Huillet, la coppia terribile del cinema che si trasferisce a Segesta, si arrampica con un gruppetto di studenti berlinesi giunto per un seminario lungo quel pendio tra agavi ed eriche dai fiori gialli e turchini, e nel piccolo teatro di pietra sopra l’ampia vallata, oltrepassato il tempio dorico, sotto il sole a picco, girano un film sulla legge e sul dovere dell’uomo di rispettarla, sulle leggi morali non scritte (gli àgrafta nomima) e sul loro imperativo categorico così forte che sottrarvisi è impossibile, pena la negazione di sè come essere umano.

Come nel teatro di Dioniso appoggiato sul fianco dell’Acropoli ad Atene nel 441 a.C., Antigone andrà incontro alla morte ma non senza aver seppellito il fratello Polinice, il rinnegato, bandito dalla città e perciò lasciato in pasto agli avvoltoi.

Per la giovane e sventurata fanciulla, promessa sposa di Emone, figlio di Creonte re di Tebe, le leggi degli uomini non possono negare la legge morale e la sepoltura è legge sacra degli dei.

Ma la legge della pólis ha comunque uno statuto importante che entra in discussione, Creonte ha ragioni molto valide da opporre a quelle di Antigone, nei testi di Sofocle e Hölderlin, arrivando fino a Brecht e al Living Theatre, resta aperta tutta la problematica del rapporto fra l’individuo e lo Stato, la legge morale e le leggi della pólis.

Gli spazi drammaturgici coesi e ristrettissimi di Antigone, una delle tragedie più compatte del mondo greco, tesa nella logica serrata di argomentazioni a cui sembra impossibile opporsi, corrispondono alla maniera straubiana di mettere in scena azioni che non avvengono ma si imprimono nello sguardo e nella mente attraverso le parole.

Come nella tragedia attica l’evento è oltre, fuori fuoco, sulla scena lo scontro è dialettico, confronto di linguaggi, l’azione si sposta nello spazio profondo della mente di chi assiste, là dove le parole le portano e le lasciano sedimentare per millenni.

L’eleganza dei tagli di regia, la straordinaria tessitura del montaggio che restituisce al mito la sua attualità, la sonorità musicale di una lingua (il tedesco del testo di Hölderlin) nata per la poesia e la preghiera, l’ambientazione in una Sicilia che è soprattutto Magna Grecia, tutto crea fascinazione.

Il sole estivo che invade la scena e fa brillare le pietre, il vento leggero che gonfia le vesti, il silenzio tra le frasi (l’ “arresto straubiano”), costruiscono una pagina di grande cinema che porge il suo omaggio ad una pagina di grande teatro, pieno di una disperata poesia ancora ricca di senso, sotto il nostro cielo.

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Un particolare extra-film: l’insediamento urbano di Segesta, fondata secondo Tucidide dai profughi Troiani (come sempre mito e storia si fondono nell’orizzonte pre-classico), fu distrutto dai Vandali nel V secolo d.C.

Sopravvissero solo il tempio ed il teatro.

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Germania/Francia 1991 durata 100′

di Jean-Marie Straub, Danièle Huillet

con Astrid Ofner, Ursula Ofner, Werner Rehm, Albert Hetterle, Stefan von Schõnberg

Musica: estratto da Die Soldaten di Bernd Alois Zimmermann diretta da Michael Gielen

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Per Kommunisten, 2014, ultimo film da citare in questa breve rassegna sul cinema di Jean Marie Straub, si rimanda alla pagina seguente:

Kommunisten di Jean-Marie Straub: la recensione

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