Café society di Woody Allen

Ogni volta, quando un mio film ha successo, mi chiedo: come ho fatto a fregarli ancora?

Di cosa parliamo quando parliamo di Café Society?

Premessa: lontani i tempi, anni settanta, in cui il giovane Woody riusciva a ridere di tutti ridendo innanzitutto di sé:

Ciò detto passiamo ai fatti.

Oggi il buon Woody ha quasi 90 anni, qualcuno in più di quell’altro americano celebre, Raymond Carver, morto, purtroppo, nel 1988 a cinquant’anni, di cancro al cervello e fisico minato dai postumi di un alcolismo guadagnato sul campo in lunghi anni di dura gavetta, lavorativa ed esistenziale in genere.

Bene, di cosa parlavano (e uno parla ancora), quando parlavano d’amore?

Principianti, direbbe Carver…

Dunque cosa stavo dicendo?- (primo racconto del libro, parla Herb, il “pensatore” della compagnia, è un medico e, classico interno piccolo borghese della provincia americana, sta bevendo gin con fette di lime spremuto dentro insieme alla moglie Terri e alla coppia di amici Laura e Nick) – Ah, ecco. Volevo raccontarvi una cosa che è successa un po’ di tempo fa… E’ una cosa successa qualche mese fa, ma va avanti ancora adesso. Sì, si potrebbe dire così. Però ci dovrebbe far vergognare quando parliamo come se sapessimo di cosa parliamo quando parliamo d’amore”.

A questo punto Carver cosa fa per non far salire la temperatura? Fa entrare la voce – ci par di sentirla, un po’ chioccia, leggermente petulante – di Terri:

E dai su, Herb, sei troppo ubriaco. Non parlare così. Non parlare come un ubriaco se non lo sei

Vuoi star zitta una buona volta, eh? “ dice Herb (attenzione “dice”, non “urla”).

E poi la storia va avanti un bel po’, Herb la racconta ed è quella di due vecchietti a cui succede qualcosa di grosso e che hanno continuato ad amarsi imperterriti per tutta la vita.

Riassuntino veloce, Carver permette questo, anche perché tutto quello che ti lascia dentro, ed è quel che conta, non lo riassumi, te lo tieni dentro e basta, ed è dolce e amaro, leggero e pesante, finito e infinito.

Principianti  allora fu tagliato al 50% da Gordon Lish e a nulla valse la disperazione di Carver, il suo umiliarsi alle ginocchia del potente, benchè amico. Ripubblicato postumo per intero, è uno dei canti d’amore più belli mai sentiti e visti (e naturalmente anche letti) dopo l’Ode del Sublime di Saffo.

E andiamo oltre.

Parliamo del film.

Sorte molto diversa, pur parlando anche questo d’amore.Proviamo a riassumerlo (qualche spoiler non manca, ma è necessario).

Lui è ebreo (per chi fa fatica a capirlo la madre due o tre volte se ne vien fuori con frasi in lingua originale, senza sottotitoli). Riferimenti all’ebraismo sono sparsi un po’ ovunque, in genere in chiave umoristica, come ai vecchi tempi (anni sessanta e settanta, per capirsi, qualcosa anche dopo, ma non molto).Oggi non fanno ridere più nessuno, sembra quello che, piuttosto rincoglionito, racconta sempre la stessa barzelletta.

Comunque lui, ebreo, va da New York a Hollywood dove spera che lo zio, affermato pubblicitario del cinema, gli dia lavoro. S’innamora a prima vista della segretaria dello zio, scatta il triangolo amoroso, lui viene battuto sul rush finale, se ne torna a New York che … mai e poi mai cambieremmo con altre città, figurarsi con Hollywood, città cafona e corrotta, con le villone di Beverly Hills che fanno vomitare! Vuoi mettere New York, la cultura, gli intellettuali, i caffè, i teatri, il jazz!“.

A New York il ragazzo, aria sempre stralunata ma fortunato, appunto fa fortuna nel night del fratello malavitoso, e siccome New York anni ’30 è pure questo (oltre all’ elenco sopra citato di benemerenze), quando il gangster finisce fritto sulla sedia elettrica il ragazzo eredita tutto e sposa una bellona più alta di lui di mezza testa (le solite fissazioni di Woody che s’identifica nel protagonista, scelto apposta bruttino con scoliosi evidente).

E le feste a bordo piscina, le mises balorde di lustrini e paillettes delle dame del bel mondo hollywoodiano, la sfilza di nomi celebri che vengono ripetuti spesso perché, essendo ambientato negli anni ’30, forse Woody teme che non li ricordiamo? C’è tutto, e, con il tema amoroso, la critica allo star system è il propellente del film, la miccia accesa che deflagra a intervalli regolari, con tirate filosofiche sul senso della vita.

L’amore trionfa, certo, quello universale.

Lui amerà sempre lei, ma anche la moglie e i due figli appena sfornati; lo zio ama la segretaria ma pure la moglie dalla quale divorzia con profondo rammarico, tutti si amano e tutti fanno film, da Greta Garbo a William Wyler a Errol Flynn e tanti ancora nominati di continuo. Tutto questo in una serie di sequenze noiosette, prevedibili fino a diventare soporifere, non basta la fotografia, non bastano gli arredi e i costumi, forse solo lo skyline di Manhattan vista al tramonto da Central Park ci può consolare, anche perché siamo quasi ormai sui titoli di coda.

Principianti, sì, direbbe Carver.

Café Society

USA durata 96′

regia di Woody Allen

con Jesse Eisenberg, Kristen Stewart, Blake Lively, Steve Carell, Corey Stoll, Parker Posey

 

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