E ora parliamo di Kevin di Lynne Ramsay

Ripreso dall’alto, un groviglio di corpi, simile al bulicame infernale immerso nel Flegetonte, si contorce in un liquido rosso, denso come plasma.

La scena ha la ritualità violenta, estrema, di un Baccanale nel pieno dell’ebbrezza orgiastica, polluzione di energia vitale e funesti presagi di morte.

Nel fiume infernale di sangue bollente i violenti sono tenuti a bada dai Centauri, mostri in cui natura umana e bestiale si contendono il primato, qui un occhio cinematografico s’insinua nell’impasto materico, ne estrae come levatrice il feto macchiato di sangue e rifiuti organici, il primo vagito è aria che diventa vita, ed è anche rantolo di chi l’abbandona.

Dalla lunga sequenza iniziale, disturbante discesa all’inferno, si torna in superficie e si è guidati fra simbolismi, premonizioni, prolessi e analessi, da un montaggio che è un capolavoro di tecnica del frammento. Alla lentezza onirica delle immagini iniziali segue un ritmo martellante, l’attesa dell’evento catastrofico diventa ossessiva, la sensazione di star vivendo tutto in soggettiva coinvolge, ma continuamente irrompono flash di realtà e si tenta di ricomporre il puzzle narrativo. Sarà infine Eva, la protagonista, nome di donna che emerse dal Caos, a fare la domanda fatidica: “Perché?”

“Credevo di saperlo, ora non ne sono più così sicuro”, é la risposta di Kevin.

Lynne Ramsay mette in scena una di quelle tragedie che, giorno dopo giorno, maturano fra le mura domestiche, poco importa che siano conficcate in luride bidonville o ben piantate fra i vialetti curati nei quartieri della middle class, la natura non fa salti e una donna, suo figlio e una certa visione del mondo in cui tutto si pretende di spiegare, argomentare, analizzare, inquadrare e squadrare, silenziosamente deflagrano.

E’ infatti il silenzio il sound prevalente del film, quell’aprir bocca e spesso non riuscire ad emettere suoni, un silenzio allucinato, rotto dall’ingresso improvviso dei brani di Jonny Greenwood dei Radiohead.

Desolazione e alienazione, spleen e sonorità post-punk prendono il posto della comunicazione tramontata.

La X Generation del terzo millennio è tutta nello sguardo sarcastico, gelido, sprezzante di Kevin (Ezra Miller sedicenne e Rock Duer bambino), il figlio che odia la madre e deve punirla per averlo messo al mondo.

Eva Khatchadourian (Tilda Swinton) ha incontrato e amato Franklin (John C. Reilly) in quel notturno rosso/sangue iniziale.

Poi regole di opportuna convivenza sociale e adesione al decalogo del bon ton hanno ripreso il loro corso, si è formata la bella famigliola nella bella villetta arredata con tocco da architetto d’interni, paesaggio domestico da intellettuali agiati fuori città, tanto verde e un bel giardino perché il pupo in arrivo possa giocare all’aria aperta e, magari, imparare anche a praticare il tiro con l’arco, un giochino abbastanza inconsueto, non c’è che dire.

Ma il piccolo Kevin sconvolge tutto il planning così accuratamente preparato.

Lui piange, piange di continuo, forse si è accorto già in utero che la madre aveva qualche resistenza alla stupenda esperienza della maternità, quella che le grasse compagne del corso preparatorio al parto hanno accolto felici (“I grassi sono grassi perchè non fanno che mangiare” dirà una volta Eva, così, tanto per dire una di quelle frasi a caso che, però, sono molto rivelatrici).

Nonostante Eva non sia nata con quella vocazione, la maternità è stata comunque vissuta con scrupolo e diligenza, senz’altro anche amore, tutto quel che si deve fare si è fatto, compreso lasciare un bel lavoro gratificante che la portava in giro per il mondo.

Ma Kevin non perdona.

Kevin non è l’incarnazione del Male, come sarebbe facile dire e arriverebbe l’esorcista, non è un ragazzino disturbato, e qui da Freud in giù inventerebbero la psicanalisi, non è neppure intellettualmente carente perché ritarda a parlare e la fa ancora nel pannolino, anzi, tutto funziona a meraviglia, la piccola peste è addirittura geniale, dunque i cultori delle tecniche di potenziamento cognitivo possono starsene a casa.

E’ lui che non ci sta, a Kevin non è piaciuto venire a questo mondo e la principale colpevole è la madre, che ha prestato l’utero perché ciò avvenisse. Perché poi ci siano persone a cui ciò non piace è impossibile dirlo con margini di affidabile certezza stando da questa parte della barricata, l’importante è non prestar loro arco e frecce.

La catastrofe finale, dunque, puntualmente arriva, preparata dall’inizio, l’ottima qualità del film non trae valore aggiunto da una svolta prevedibile e fin troppo rispecchiata dalla cronaca vera e dal cinema (più o meno a partire da Bowling a Columbine).

I tempi di Jean Vigo e Zéro de conduite sono lontani , oggi le rivolte a scuola non finiscono a cuscinate e fughe sul tetto verso la luce.

Il pregio indiscutibile dell’opera è piuttosto nell’assunto di base e nell’incarnazione perfetta che ne realizza la Swinton, complice una regia sensibile, che ben conosce l’arte della sobrietà e sa come tenere la tensione e l’attenzione sempre al massimo.

Mentre si parla di Kevin il focus è sulla donna, che domina ogni scena, che deve vivere la maternità come l’esperienza culminante della sua vita, ma soprattutto lo deve fare in ogni sua fibra più intima, non può permettere al suo inconscio la minima ribellione né adagiarsi in depressioni post partum, non può aspettarsi che il marito condivida la sua angoscia, con lui Kevin è così amorevole, e poi il padre è così spesso assente!

Lo stupore amaro del veder fallire ogni tentativo di comunicazione col figlio è cosa solo sua. E’ lei l’imputata, lei sconterà la pena per la sua colpa personale di essere la donna e la madre, e soprattutto di esserlo con i tempi che corrono.

Sola, reietta dal corpo sociale per “aver partorito il mostro”, priva di mezzi dopo i disastri combinati dal figlio, non le resta che chiedere “perché?” a lui, al bravo Kevin, a cui due anni di galera hanno però scalfito lo sguardo, quegli occhi beffardi e dolorosi della vittima/carnefice. E allora, forse, una speranza resta, in fondo l’amor materno é indistruttibile e capace di superare perfino sé stesso.

Tilda Swinton, scarnificata come non mai, dipinge sul suo viso l’oscurità di anfratti così profondi e bui dell’animo che nessuno saprà mai illuminare, lì dove tutte le scuole di psicanalisi si arrendono e le religioni lanciano anatemi.

We Need to Talk About Kevin di Lionel Shriver offre a Lynne Ramsay la storia giusta per dire ancora qualcosa, dopo Gus Van Sant, sulle fredde lande dei nuovi giovani, anche se la sensazione è che, stavolta, il problema sia ancora più vasto.

E’ il contrasto sempre più insanabile fra natura e cultura, la questione mai risolta della donna e del suo posto nel mondo, la profonda pietà di fronte alla giovinezza deturpata. Tutto questo in un film che non cerca simpatia, rifiuta feed back emotivi e scava fino a grattare il fondo, mentre riaffiora un verso antico:

Forse … in covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale”.

 

E ora parliamo di Kevin

We Need to Talk About Kevin

Gran Bretagna, USA, 2011 durata 110

regia di Lynne Ramsay

con John C. Reilly, Tilda Swinton, Ezra Miller, Siobhan Fallon, Ashley Gerasimovich, Leslie Lyles, Lauren Fox, Aaron Blakely, James Chen

_____________________

Le immagini presenti nell’articolo appartengono ai rispettivi proprietari e sono utilizzate al solo scopo di corredare il testo.