I sette samurai di Kurosawa Akira

Nel Giappone medievale, una storia di briganti, di un villaggio di contadini plurisaccheggiato e di sei samurai più un settimo, Kikuchiyo, un Mifune Toshiro perfetto miles gloriosus nella buffa armatura che gli lascia le natiche scoperte (iconografia degna di antichi vasi fliaci), figlio di contadini  decimati dalle scorrerie dei briganti, deciso a farsi consacrare samurai, costi quel che costi, fosse anche la vita. 


Stralunato soldato di ventura, uscito dalla penna di Cervantes o scappato dalle scene di Shakespeare, sarà per tutto il film il collante fra due mondi separati, gli umili e spaventati contadini e i tronfi “signori della guerra”, che sfilano impettiti nei villaggi con i loro pennacchi, esibendo granitica fedeltà al bushido[1], codice d’onore a cui hanno affidato il senso della loro vita. 


I contadini hanno però bisogno di difendersi, i briganti incombono sul prossimo raccolto di riso e il vecchio saggio del villaggio ha prescritto la cura: servono samurai, andate ad ingaggiarli e tassatevi tutti perché bisogna convincerli e, soprattutto, pagarli.


“Riso, naturalmente, e voi mangerete miglio, e che siano tre, di più non possiamo permettercene”. 


Saranno sette, il vecchio samurai Kambei dallo sguardo buono e gentile, primo adepto alla causa dei contadini perchè dall’arte della guerra ha imparato, per provvidenziale contrappasso, la pietà umana, da abile stratega sa che con meno di sette è impossibile organizzare una difesa credibile.


La battaglia ci sarà, nell’ultimo quarto del film, e culminerà in un  crescendo addirittura wagneriano nella forza sonora del- l’accompagnamento musicale, sezione di una partitura cinematografica unica e memorabile, fatta di trombe dal rimbombo metallico, di cupe percussioni presagio di morte ed elegiaci cori a bocca chiusa che esaltano il lirismo di tante scene.


Il magnetismo delle riprese in campo lungo per lo scontro finale tocca l’apice nella pioggia torrenziale, che trasforma in fango uomini e cose, fondendo gli elementi in un viluppo infernale.


Combattono tutti, adesso, uomini e donne, samurai e contadini, i quaranta briganti (torna il quaranta quando si parla di ladroni) saranno sterminati dall’abile tattica militare di Kambei e dalla generosa dedizione alla causa umanitaria di questi rivoluzionari super-eroi, indimenticabili nel tratteggio che Kurosawa modula delle loro figure.


Kambei, solida roccia, dolce e severo, dichiara all’inizio e alla fine del film il fallimento dell’etica cavalleresca a favore della misura umana: “Ho perso tutte le battaglie in cui mi sono trovato. Ci hanno sempre ripetuto “allenatevi, distinguetevi, diventate i signori della guerra”. Consumiamo l’esistenza in questa vana ricerca, giunge la vecchiaia e ci ritroviamo con un pugno di mosche in mano(come non avvertire l’eco del celebre “a brief candle” di Macbeth?)


Katsuhiro è il samurai giovane, entusiasta e un po’ sprovveduto, che tutti tendono a proteggere. Catturato dall’amore della contadina Shino,  contravviene così anche lui a suo modo ai codici cavallereschi che mai accetterebbero simili connubi, anche se il suo idolo rimane sempre  Kyuzo, l’asceta della spada, taciturno e appartato, schivo esecutore di imprese leggendarie. E ancora Gorobei, Shikiroji, Heichaki, ognuno con la sua umanità, tutti capaci di mettere le loro virtù guerriere al servizio di umili contadini disprezzati e derisi, inaspettati protagonisti, nella loro dolente coralità, di un film di samurai (“Abbiamo perduto ancora una volta” dice Kambei nell’ultima scena ai due samurai sopravvissuti “I vincitori sono loro, i contadini”).


La spada che Kambei conficca sul tumulo di Kikuchiyo, consacrandolo contadino-samurai, è il segno più forte di questo incomparabile ribaltamento di regole che Kurosawa mette in campo per un’epica favolosa eppure così ancorata alla realtà, da immenso aedo del cinema che contamina generi (teatro, lirica, epica cavalleresca ed eroicomica insieme) e fonda quella che è stata definita “ l’Iliade e Guerra e pace dei contadini”.


Inutile dire che la visione integrale dei 200 minuti è imprescindibile, i remake americani sono onesti tributi alla grandezza dell’originale, la lezione di Johnn Ford è presente, ma non è un caso se il grande Coppola, mentre girava Apocalypse now, si faceva proiettare di continuo solo questo.

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[1] Bushido (la via del guerriero): codice di condotta e modo di vita dei guerrieri giapponesi, vicino al concetto europeo di cavalleria,fatto di norme di disciplina militari e morali quali onestà, lealtà, giustizia, pietà, dovere e onore.Il venir meno a questi principi causava il disonore del guerriero e l’espiazione mediante il seppuku, suicidio rituale.

[1] Il genere Jidai Geki narra le vicende di samurai, contadini, fabbri, mercanti del periodo Tokugawa (1603-1867) o dell’epoca Sengoku (1478-1605) ed il termine è spesso accostato al genere Chambara, combattimento con le spade.

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I sette samurai

titolo originale: Shichi-nin no Samurai 

Giappone 1954 durata 140’ (versione integrale 200’) b/n

di Kurosawa Akira

con Mifune Toshiro, Shimura Takashi, Akitsu Yu, Chiaki Minoru, Chiba Ichiro , Eijiro Tono, Fujiwara Kamatari,

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