Il cimitero del sole di Oshima Nagisa

Kamagasaki, quartiere di Osaka, bassifondi metropolitani del dopoguerra giapponese.

Nella galleria comparata dei bassifondi ripresi dal cinema, questi di Oshima si collocano a pieno titolo fra i più orrendi.

Kurosawa aveva già guardato tre anni prima in un buco circolare scavato nella terra come un girone infernale con Bassifondi.

Lì la prospettiva era storica (Edo,Tokyo, verso la fine dell’era Tokugawa, inizi dell’Ottocento) e la fonte letteraria (Gorkij, Na dne).

Nel ’70 le vite underground di Dodés’ka-dén, brulicanti dentro gli scenari di una bidonville di Tokyo (Horie-cho), che Bernard Cohn definì “antinaturalistici e fantastici”, continuarono a raccontare di un Giappone post-imperiale dove non sorge il sole.

Andrà avanti Kitano, senza guardare in faccia a nessuno, ed è storia di oggi.

Oshima mette in scena uno slum che in nulla differisce, se non per la lingua, da una favela di Rio, una baraccopoli a Ponte Mammolo o una banlieu parigina, e lì Hanako, figlia di uno straccivendolo, di giorno traffica sangue da vendere all’industria cosmetica, di notte “vende la sua carne, è una ragazza impegnata”, dice uno spiritoso.

Come lei, ma diverse da lei che è sfrontata, decisa e ha la stoffa da leader, varie altre fanciulle, mute come merce sugli scaffali, appaiono e scompaiono accompagnate da magnaccia di varia caratura. Bande di malavitosi controllano territorio e traffici, le regole sono dettate da risse, pugni e coltelli, c’è sudore e puzza di marcio ovunque.E’ un film tra i più duri da guardare, spietato, con quel sole che, a intervalli regolari, appare come una palla di fuoco fra ponteggi e ciminiere, e sembra pronto a cadere da un momento all’altro sulla terra.

E in un certo senso questo accade, l’incendio finale che tutto distrugge come una guerra (“è come quando finì la guerra” dice il cinico dottore cavasangue correndo via con Hanako oltre la grande porta verso la città, “abbiamo un bel lavoro da fare!”) è la classica sconfitta dell’uomo debole. La banda di miserabili ubriaconi che appicca il fuoco collabora al proprio annientamento con riserve insospettabili di energia malata, la stessa che hanno usato per distruggersi a vicenda come insetti.

Le persone inutili è meglio che muoiano”, si dice in giro, fino a scoprire che inutili sono tutti, privati anche della identità anagrafica da uno più furbo di loro, col furto dei documenti venduti agli stranieri entrati illegalmente nel paese.

Spogliare dei luridi vestiti il cadavere lasciato per strada o cercare le sigarette nel taschino dell’impiccato rientra allora in una casistica di comportamenti quotidiani che la comunità metabolizza senza nessun problema, e sembra conseguenziale stuprare una ragazza dopo averne buttato nel fosso ad annegare il ragazzo e poi completare l’opera, giorni dopo, con lei, facendola volare giù dal terrazzo condominiale in una sequenza allucinata, schizofrenica, posta com’è fra due momenti in cui sembra farsi largo un residuo di pietà umana e di amore.

No, tutto ciò che potrebbe illudere, far balenare ipotesi di riscatto, è immediatamente negato, Oshima arriva fino al fondo della miseria umana e solo da lì accetta di parlare dell’uomo, quando ha tolto di mezzo tutte le finzioni e le sovrastrutture consolatorie.

Nel nuovo corso del cinema giapponese di quegli anni, il mondo di Oshima trova corrispondenze forse solo con quello di Imamura, che dichiarava la sua attenzione per “la parte più bassa del corpo umano e i livelli inferiori della struttura sociale“, ma i tratti espressionisti del cromatismo a forte contrasto, la costruzione scenografica, l’uso del primo e primissimo piano, spesso scorciato, semi oscurato, il dettaglio sugli occhi, che appaiono improvvisi, in momenti di tensione estrema, e sembrano risvegli da un incubo, sono cifre di uno stile inconfondibile.

Il film ha una dichiarata connotazione politica, i riferimenti alla situazione del dopoguerra e al tradimento dei centri di potere sono espliciti (il prossimo, definitivo j’accuse, sarà Notti e nebbie in Giappone), lo scacco giovanile dopo il rinnovo del Trattato di Sicurezza nippo-americano del 15 giugno 1960 era molto recente.

Oshima, il cane sciolto, l’universitario anarchico e individualista che nel ’51 aveva gridato all’imperatore in visita a Kyoto: “Non proclamare più il tuo carattere divino! Sono morti già troppi giapponesi per colpa di questa divinità”, mette in bella mostra, fra le prime sequenze, un gran cartello per strada, “Diamo amore e futuro ai ragazzie sistema fra i clochards un fanatico, Rivoltoso, sempre sul piede di partenza per andare a fare il suo dovere di soldato dell’imperatore e “raddrizzare quegli studenti”, finchè qualcuno non gli urla in faccia “Impero? che ne so io dell’Impero? Barboni come questi scompariranno? e anche i quartieri poveri”.

Manabe Riichiro scrive una colonna sonora in cui prevalgono accordi di chitarra, componente espressiva importante del film. Il commento musicale a volte procede in sintonia ritmica, altre stride nel contrasto, come quello scritto per la lotta mortale fra i due ex amici, ripresi in campo lunghissimo, con tecnica che tornerà spesso in Kitano, mentre i due corpi, macchie colorate, si avvinghiano e la melodia, di allegria epidermica, si dilata e sfuma nella distanza.

Resta un muto urlo di rabbia contro un cielo nero.

Il cimitero del sole

titolo originale: Taiyo no hakaba

Giappone 1960  durata 87’

regia di Oshima Nagisa

con Tsugawa Masahiko, Honoo Kakojo, Sasaki Isao

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