Il nastro bianco di Michael Haneke

“Il bianco, come voi sapete, è il colore dell’innocenza”

Germania del Nord, 1913-14.

In un villaggio protestante una serie di strani incidenti ha tutta l’aria del rituale punitivo messo in atto da una mente sconosciuta.

Tutto comincia con l’incidente al dottore, disarcionato dal suo cavallo per colpa di un filo teso tra due alberi. Altri episodi si susseguono, il figlio del Barone, Siegy (Fion Mutert), viene trovato semi incosciente dopo essere stato frustato; il piccolo neonato dell’Intendente del Barone quasi muore assiderato perché la finestra della cameretta è stata lasciata aperta e il granaio del Barone viene dato alle fiamme. Infine, il figlio storpio e ritardato della levatrice viene torturato e quasi resta cieco.

Di fronte a tante sciagure i bambini non sembrano essere sconvolti.

La realtà sociale del paese è segnata da strutture rigide e relazioni familiari patriarcali che nascondono violenze inimmaginabili, i figli non hanno voce, devono rispettare i padri a cui danno del Voi, e il diritto di critica o di replica è rigorosamente escluso.

Sul loro braccio spicca un nastro bianco simbolo di purezza.Il Sindaco, qui il Barone(Ulrich Tukur), il Medico (Reiner Bok) il Pastore (Burghart Klaussner) e il Maestro di scuola (Christian Friedel) sono le autorità riconosciute da tutti e a loro si deve obbedienza totale.

La sottomissione al principio di autorità, mentre scatena per il momento nei giovani un odio che si traduce in piccoli attentati, diventerà ben presto la rabbia della futura generazione nazista che invoca l’ordine nuovo affidato alla rivoluzione del Terzo Reich.

E mentre nulla sembra accadere al di là di questi “piccoli incidenti”, molto sta cambiando nel paese e nell’Europa intera.

La notizia dell’attentato di Sarajevo e della morte dell’Arciduca Francesco Ferdinando chiude il film. E’ il 28 giugno 1914. L’ Austria dichiara guerra alla Serbia scatenando una reazione a catena, la Prima Guerra Mondiale è ormai cominciata.

La voce fuori campo che ha raccontato la “storia” ci aveva avvertito che quello sarebbe stato l’ultimo capodanno di relativa tranquillità. Niente sarà più come prima, questi bambini saranno i padri di domani, avranno trent’anni quando il nastro bianco sulle loro divise diventerà per molti il nero della svastica e dell’orbace, ogni processo educativo ottiene frutti adeguati.

L’apocalisse dietro l’angolo, l’incubazione del male, la genesi di mostri studiati in vitro nel loro farsi, crescere e moltiplicarsi, questo è il film che vinse dieci anni fa la 62° edizione di Cannes 2009, Il nastro bianco, già nel titolo così asettico, così totalmente dissanguato nella negazione che il bianco impone ad ogni sospetto di colore e dunque di libero fluire del sangue e della vita.

Gelido e tagliente come la coltre di neve che copre il villaggio, abbacinante come i campi che sembrano di ghiaccio anche quando sono ricolmi di spighe, il film è girato in un bianco e nero senza ombre nè calore, il silenzio è la cifra costante, qualche tocco di Schubert e pochi brani da corali a cappella di Lutero non bastano a rompere l’aria rarefatta che si respira per tutta la durata, all’aprirsi di una visione ai confini della realtà ma che della realtà ci dice molto, dove oggetti, luoghi e persone di comunissima apparenza diventano terrificanti epifanie della totale negazione di umanità.

Ogni parvenza di realismo narrativo della trama si dissolve di fronte al senso di mistero che aleggia fino alla fine e non trova soluzioni, le tracce si disperdono già al loro primo apparire, il film non racconta una storia o delle storie, vuol darne l’impressione, ma nell’attimo stesso del verificarsi l’evento sfuma.

Tagli improvvisi di sequenze, cambi repentini di scena, il filo continuamente spezzato si riannoda ogni volta nel martellante senso di minaccia incombente, sia questa dettata dai sinistri che si susseguono senza che qualcuno ne cerchi il colpevole, o siano piuttosto i comportamenti sociali e famigliari, segnati da tare ataviche, modellati su assurdi paradigmi di repressione e violenza.

Haneke guarda nell’incubatrice della generazione che, vent’anni dopo, avrebbe marciato al passo dell’oca sotto la Porta di Brandeburgo per la gloria del Terzo Reich ma aggiunge:

Sono dieci anni che lavoro attorno a questo soggetto, e non era certo mia intenzione parlare solo di Germania. In realtà in qualsiasi società se un principio diventa assoluto si disumanizza. Se l’obiettivo da raggiungere, mettiamo da un educatore verso i propri figli, è talmente alto da diventare un ideale, allora non è più raggiungibile e rischia di creare mostri. Un meccanismo che abbiamo conosciuto nelle religioni, nelle ideologie, nei terrorismi di ogni segno”.I ragazzi del villaggio si muovono come automi, ubbidiscono come piccoli soldati a chi esercita sulla loro innocenza originaria il diritto di calpestarla, che sia il pastore, fanatico moralista che affida ai nastri bianchi il segno della purezza o il medico, pervertito misogino, o la comunità tutta di volti impassibili, ottusi, facce uscite da una tela di Munch, schierate in chiesa a pregare chissà quale loro strano dio.

Un mondo senza speranza, in cui il male è l’innocenza negata che diventa violenza, furia distruttrice, Erinni che sale dal sangue delle vittime e si abbatte sull’uomo.

Il nastro bianco

titolo originale: Das weiße Band

Austria, 2009, b/n, durata 145’

di Michael Haneke

con Susanne Lothar, Ulrich Tukur, Burghart Klaußner, Josef Bierbichler, Marisa Growaldt, Janina Fautz, Michael Kranz, Jadea Mercedes Diaz, Steffi Kühnert, Sebastian Hülk

 

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