Il tempo della mietitura (Inizio d’estate)

Giappone 1951 durata 124′

titolo originale Bakushu

regia di Yasujiro Ozu

con Chishu Ryu, Setsuko Hara, Chikage Awashima, Kuniko Miyake, Ichirô Sugai

L’ottava di un regista é qualcosa di innato, non la si può modificare facilmente. Naruse e io siamo registi dall’ottava bassa. Kurosawa e Shibuya viaggiano, in proporzione, su un’ottava più alta. Mizoguchi sembra possederne una bassa, ma in realtà é alta. Ogni regista ha la sua propria ottava.

Così Ozu Yasujiro in uno scritto, cogliendo quell’analogia tra la musica e i linguaggi dell’arte che è ormai acquisizione consolidata dal secondo dopoguerra.

Il suono e il ritmo come momento intrinseco al processo creativo, il richiamo a codici linguistici che si integrano al di là dei loro confini specifici a definire uno stile, un intento, una lettura e un commento della realtà, tutto questo si riassume nell’ “ottava di un regista”.

Lo sguardo silenzioso sui dolorosi cambiamenti della vita, la presenza costante di una sofferenza passata ma non rimossa colta in uno sguardo, la difficile convivenza con gli altri e le facili trappole che narcisismo, orgoglio ed egoismo tendono all’uomo, tutto è sotteso nel teatro visuale di Ozu, che osserva da vicino i personaggi e il loro mondo, viene attratto da oggetti quotidiani, colloca persone e cose in spazi semplici e consueti, ci dà il tempo di guardare, e alla fine basta un tovagliolo gettato nervosamente sulla spalla per far capire l’ira di Koichi, capofamiglia giovane e risoluto, l’accovacciarsi silenzioso accanto al marito per sentire la mortificazione dolorosa della madre anziana (mi hanno rimproverato), il sorriso che le sparisce dagli occhi per leggere il ricordo sempre vivo di Kyoshi, il figlio disperso in guerra.

E’ un ricamo sottile quello di Ozu, un’archeologia di piccolissimi frammenti spolverati, numerati e catalogati, sembrano tutti uguali e incolori, eppure ci parlano di uomini e civiltà, il racconto potrebbe non finire mai, sempre uguale e diverso mentre riconosciamo noi stessi in una continuità storica che va oltre il tempo reale e i confini geografici.

La famiglia di questo tempo del raccolto del grano, che ondeggia in ampie masse nella sequenza finale, è rappresentata in tutte le gradazioni di età, a partire da Imusa e Minoru, marmocchi capricciosi che scorrazzano rumorosi, s’infilano ovunque, sono perfino protagonisti di un minimo tentativo di fuga dal nido protetto a seguito di un rimprovero un po’ forte del padre.

Sull’educazione dei figli Ozu non impone la sua, ma ci fa riflettere, come sempre il suo sguardo è lungo e prefigura fenomeni sociali che, a sessant’anni di distanza, si rivelano profetici sul rapporto padri/figli.

Del piccolo clan, oltre a genitori e figli, fanno parte zia Noriko, i nonni e il bisnonno, ormai sordo, che i due monelli prendono abbondantemente in giro (c’è un versante umoristico nel mondo di Ozu sempre pronto a scattare, sottile e quanto raffinato!).

Vivono a Kamakura, cittadina pittoresca a pochi chilometri di Tokyo, c’è una bella spiaggia, all’ombra dell’enorme statua del Grande Buddha, spesso presente nei film di Ozu, si siedono bambini e mamme, il teatro kabuki è pieno di spettatori fra cui il bisnonno, che perde gran parte della recita benchè sia seduto ai primi posti, la vita scorre tranquilla tra vicine che arrivano a spettegolare un po’ e amiche, sposate e no, che s’incontrano per il té e si prendono reciprocamente in giro.

Ora però c’é un problema in vista, Noriko ha 28 anni e non é ancora sposata.

Dai parenti al capufficio si fanno carico tutti della ricerca del buon partito, impensabile che a quell’età si sia ancora nubili!

Noriko é Hara Setsuko con il suo eterno sorriso, che diventerà pianto dirotto una sola volta, quando il matrimonio finalmente deciso, e quel che più conta, deciso da lei, segnerà inevitabilmente la separazione della famiglia.

Ma la vita é anche questo e bisogna andare avanti, una bella foto di gruppo e la promessa di ritrovarsi al più presto.

Nessun manifesto sulla liberazione della donna, non è un film protofemminista, è solo un film intelligente, che registra la realtà, la interpreta, ne coglie umori e significati e anticipa fenomeni epocali.

Noriko e il futuro marito si trovano per caso, la madre di lui, vedovo con figlia, ha fatto scattare l’incontro, in fondo Noriko non sa neanche chi e cosa l’aspetta, ma ha detto, parlando dell’altro partito proposto dal capufficio e gradito alla famiglia perché benestante: “Non mi fido di un uomo che a quarant’anni non ha ancora formato una famiglia. Mi fido di più di un uomo che ha già una figlia” e questo é tutto, il resto verrà, forse, dopo il matrimonio.

Vedere film di Ozu è quasi sempre ritrovarsi in compagnia di facce note, Noriko è un nome che si ripete e individua un certo tipo femminile, tornano le gabbiette con gli uccellini appese all’ingresso, il treno che corre sullo sfondo, a volte c’é il mare, su cui Ozu si sofferma a lungo, in silenzio, e non mancano scenette con gli anziani che consumano un veloce pasto al sacco, magari all’uscita da un museo, mentre la buona signora dà ragione al marito che dice: ” Questo è il periodo più fortunato della nostra vita”anche se, in realtà, non sta accadendo niente di eccezionale.

C’ è un’accettazione della vita che si traduce nel gesto garbato, nel sorriso che smussa i momenti più tesi o le piccole delusioni (l’amica sposata che telefona a Noriko e Aya, nubili, per dire che non può venire all’appuntamento con loro e Aya che commenta triste: “ci hanno lasciate sole”), in quel raccogliersi appena possibile a terra, intorno ai bassi tavoli o distesi sui futon, muovendosi con agilità anche da vecchi e annullando così l’incombenza verticale e aggressiva della massa corporea.

Tutto è curato nei minimi particolari, e diventa leggerezza di racconto e profondità di significato.

La nonna indica al nonno un aquilone che si allontana nel cielo, lui le risponde: “Lì un bambino è triste”, è maggio, festa dei bambini, il kodomo no hi, e c’è un grande poeta dietro la mdp.

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