Le tre scimmie di Nuri Bilge Ceylan

Le tre scimmiette che da quattro secoli si tappano bocca, occhi e orecchie con le zampe anteriori (si dovrebbe forse dire mani) nel santuario Shintoista di Tosho-gu a Nikko, sono le guardiane del sonno eterno dello Shogun Tokugawa Ieyasu.

Dalla loro cornice di legno invitano i visitatori a non vedere, non sentire e non parlare al diavolo, ricordando loro la saggezza di quel signore che, piuttosto che parlare di cose che non sapeva, preferiva stare in silenzio a guardare l’acqua del fiume.

“Non prestare attenzione al male, non dare ascolto al male, non dire il male” , questo è il senso del loro gesto, un messaggio in linea con il contesto culturale da cui proviene.

Grazie alla  polisemia di parole e  immagini che ogni cultura modella a sua somiglianza, “non vedo, non parlo, non sento”, trasferito in Occidente, è diventato, nella peggiore delle accezioni, gergo di mafia, nella migliore, modello di comportamento diffuso di stampo interclassista.

La famiglia fotografata da Ceylan in Uç Maymun, miglior regia a Cannes 2008,  infatti una famiglia proletaria.

Il padre, Eyup, fa l’autista a Servet, un politico come molti, ricco, potente e aperto a tutti i compromessi. Ha ammazzato qualcuno per strada fuori città con la sua macchina, di notte.

Non potendo fare il pirata fino in fondo perché l’auto non sfugge, offre soldi a Eyup che gli faccia da prestanome, lui non può compromettersi, ci sono elezioni in vista.

L’uomo sconta così nove mesi di carcere.

“Un posto dove si sta caldi d’inverno, ti danno tre pasti al giorno e quando esci un po’di soldi, così puoi anche avviare un’attività”.

Così Eyup descrive il posto a Bayram, un poveraccio che dorme in un bar in cambio di una mano per pulizie e lavoretti vari di giorno.

Non se la passa bene neanche Eyup, quanto ad alloggio.

Estrema propaggine di una periferia da dopoguerra, vive in bilico su una fetta di cemento e intonaco grigio che sembra dover crollare da un momento all’altro sui binari della ferrovia sottostante. L’interno é fatto di spazi angusti, abbrutiti da incuria e povertà, letti e divani su cui vediamo spesso gli altri due, Hacer e Ismael, madre e figlio, stesi in un abbandono inerte. Si entra e si esce senza saper bene perché, porte si aprono e chiudono su spazi asfittici, sembra non esserci storia dietro quelle vite, la mdp è ferma, non li segue, non li interroga. Lasciata nella stessa posizione, pare aspettare che qualcuno passi davanti mosso dal caso.

Hacer, bellezza che sta sfiorendo per gli anni e gli scarsi mezzi, ha preso fin troppo per buono quello che le ha detto Servet: “Se ha qualche problema, non esiti a contattarmi: farei qualsiasi cosa per lei”.

La relazione con il potente la fa sentire ancora donna, l’umiliazione successiva sarà la condanna a vita sua e di Eyup, l’uomo che sa e non ha mai scelto di aprire occhi, bocca e orecchie.

Servet, da parte sua, sconterà fino in fondo ogni sua malefatta e Ismael, la figura più penosa, è stritolato in una inutile e disincantata giovinezza.

Ognuno di questi quattro personaggi ha avuto la sua possibilità di essere diverso e, come si dice a volte con la retorica che sempre soccorre a decorare scenari altrimenti miserabili, “di prendere in mano la propria vita”.

Non l’ha usata, ognuno ha sbagliato e poi ha scelto di girarsi dall’altra parte.

Per viltà? Per paura? Per quella costituzionale incapacità di essere piccoli eroi del quotidiano che condanna l’uomo a quel girone d’Inferno che Dante non ha ancora inventato?

Tenere la propria vita in bilico su mezze verità, leggere in un improvviso batter di ciglia, in un capo che gira di scatto, in una frase che rimane a metà non è difficile. C’è una vita che scorre parallela a quella che gli altri ci vedono vivere, capita che le due traiettorie entrino a volte in rotta di collisione, è il momento di scegliere.

Saltare nel vuoto mentre sotto passa un treno? Rovesciare come monetine in fondo alla tasca tutto quello che dovremmo dire? C’é qualcosa che spinge a non farlo.

Cosa colpisce in questo film? Non la storia, quasi inesistente.

Ceylan non ama raccontare, i suoi tempi si misurano sulla durata del tempo reale, se colpo di scena interviene a rimuovere il torpore consueto (incidente, adulterio, omicidio) resta abilmente fuori campo, noi continuiamo a vedere quello che vedremmo nella vita vera, frammenti riflessi in uno specchio.

Eppure non parliamo di naturalismo per questo cinema, anzi, è quanto di più costruito ci sia, con quella tecnica di ripresa che punta l’obiettivo a fil di pelle, sudore e pianto colano sullo schermo, gli occhi, una piega delle labbra, il linguaggio silenzioso del corpo, tutto è scelta di un autonomo punto di vista e riconoscimento della dimensione soggettiva, che è propria dell’esperienza personale.

E’ performance lirica, che mentre testimonia progetti, pensieri e tensioni dell’ambiente umano di cui è partecipe, afferma la propria individuale percezione e interpretazione del reale.

Il senso del bello è profondo.

La poetica di Ceylan si nutre della tristezza infinita di Istanbul, huzun,  quella “… delle sirene dei battelli che urlano nella nebbia… delle donne con le sciarpe in testa e i sacchetti di plastica in mano… dei gabbiani immobili sotto la pioggia sulle imbarcazioni piene di cozze e alghe…”[1]

Come Mahmut in Uzak, Eyut viene lasciato a guardare i battelli che sembrano immobili in lunghe file sul Bosforo, mentre un tuono lontano annuncia pioggia.

[1] Orhan Pamuk, Istanbul, 2003

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Le tre scimmie

titolo originale Uç Maymun

Turchia, Francia, Italia, 2008, durata 109’

regia di Nuri Bilge Ceylan

con Hatice Aslan, Yazuv Bingol, Ahmet Rifat Sungar, Ercan Kesal

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