Noi tre di Pupi Avati

Estate 1770, è il primo dei tre viaggi di Mozart in Italia. Ospiti a Bologna del conte Pallavicini, il quattordicenne Amadè e il padre Leopold arrivano nella villa patrizia fuori Porta San Vitale.
Un esame di contrappunto all’Accademia dei Filarmonici dovrà consacrarlo compositore, l’attesa del severo Leopold è alta, Amadé la vive con dolcezza svagata e ubbidiente.
Povero Leopold, sembra suggerire Avati, Amadé vorrebbe “solo pensare la musica” e vivere la vita semplice di tutti i ragazzi.
Fedele alla sua cifra stilistica, qui più che mai in sintonia col clima della storia, Avati ricostruisce fatti, ambienti e personaggi con una leggerezza trasognata, che può sconfinare in debolezze di sceneggiatura ma che, forse, proprio per questa sua imperfezione, ci racconta da vicino, da un’ottica quotidiana, il destino di un genio che “fino a tardi – scrive Hildesheimertroppo tardi nella sua vita non seppe chi era. La sua solitudine era la più profonda ma anche la più discreta: non se ne rese conto, almeno fino agli ultimi mesi della sua vita
Dissonanze, dunque, perché dissonante è il destino di un ragazzo che scopre l’amicizia, che si stupisce dell’amore, che aspetta la neve per tutta la notte, e quando arriva attraversa il bosco correndo da Antonia perché ora la può corteggiare, e poi deve partire per non tornare mai più.
Nessun Dio incaricò Mozart di esternare le sue sofferenze”, scrive ancora Hildesheimer, e allora Amadé ci piace immaginarlo come ce lo fa vedere Avati, fuori da tutte le oleografiche  ricostruzioni che un mito necessariamente fa fiorire.
Boschi che sfumano all’ocra mentre arriva l’autunno dopo l’estate lussureggiante, magnifici scorci di architetture rinascimentali che portano addosso il peso sfatto delle glorie passate, stanze in penombra popolate di personaggi normalmente strani, un conte malaticcio e lungimirante su Mozart, sufficientemente cinico per non diventare un insopportabile podagroso (alla vecchia signora vicina di latifondo, ormai cadavere sul feretro, sussurra all’orecchio “era ora che te ne andassi!”), che mangia a pranzo la terra della sua proprietà con l’aria del Titano che torna a riprendere vita dalla madre Gea (un vero pezzo di bravura nella carriera di Delle Piane), una moglie bella, giovane e vagamente inquietante, un cugino che si aggira per la proprietà immerso in una strana follia, malinconico “imperatore dell’inverno” che resta a guardia del palazzo avito quando tutti tornano in città, e ci par di capire che la solitudine è la sua follia, ma a quella non c’è rimedio e se lo porteranno via dopo l’ennesima crisi.
Il bosco che cercavo per Leda, Giuseppe e Amadé – afferma l’autore – era il Bosco degli Addii. Un insieme di piante e di radure, una montagna di ombre e di tagli di luce, dentro la quale il vibrante cuore dei miei tre ragazzini potesse vivere il tremore e il trasalimento, l’emozione e l’incanto di quel loro brevissimo idillio. Un bosco dove il mio Amadé potesse nascondersi cercando di sottrarsi al mondo che lo attendeva, per sempre“.

Ci piace pensare così Amadé, un folletto che corre nel bosco con il primo amico, Giuseppe, ruvido e un po’ ottuso con la sua parlata romagnola e Antonia, breve amore di adolescente prima di finire nelle mani di Constance, e la sua musica, quella che voleva “soltanto pensare”, e che ora tutti pensiamo, grazie a lui.

______________________

Noi tre
Italia, 1984; durata: 90′
di Pupi Avati

con Christopher Davidson, Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Carlo Delle Piane, Ida Di Benedetto, Dario Parisini, Barbara Rebeschini

_____________________

Le immagini presenti nell’articolo appartengono ai rispettivi proprietari e sono utilizzate al solo scopo di corredare il testo.