Ridicule di Patrice Leconte

Ciò che mi attira nelle storie che voglio raccontare è il lato umano“, dice Patrice Leconte “Se c’è una cosa che non è cambiata nel corso dei secoli è la natura umana“.

Location del film è Versailles, “l’un des plus grands symboles de l’histoire occidentale”, osserva Murakami Takashi, la Francia dell’ ancien régime, tra nuvole di talco per parrucche e grottesche elucubrazioni filosofiche, fra giochi di seduzione eretti a stile e ragion di vita e scoppiettìo inesorabile di arguzia e motti di spirito, ariosi accordi al clavicembalo di Lully che aleggiano con sottili fragranze fra sale colme di specchi e sete, ori e stucchi e vendette che covano nell’ombra perfide trame, quella Francia prossima alla fine è tutta qui.

Grégoire Ponceludon de Malavoy, nobile di provincia, idrografo, ha bisogno di aiuti economici per bonificare le paludi malsane della propria regione dove i contadini muoiono di malaria, e spera che re Luigi XVI possa accogliere il suo progetto.

La richiesta naturalmente è respinta, ma il giovane suscita la simpatia dal Marchese de Bellegarde, simpatico e progressista, personaggio a cui dà forza Jean Rochefort, viso da folletto ridente e dissacratore.

Grégoire ha una spiccata attitudine per il motto di spirito, l’arguzia non gli manca e questo gli facilita l’ingresso a corte, dove ogni diversivo capace di scuotere noia e mélancholie è accolto con estremo favore.

S’innamora di Mathilde, bellissima figlia di Bellegarde, promessa in sposa ad un vecchio ricchissimo, ma, noblesse oblige, deve prima concedere i suoi favori a Madame de Blayac, una Fanny Ardant sensuale come sempre nel ruolo di vedova piacente e senza scrupoli, vendicativa, perfida ma perfetta nel momento in cui, sconfitta, fa riemergere il suo volto vero di donna che soffre (Leconte disse che non avrebbe mai smesso di girare quella scena).

La leggerezza apparente di una società che cantava il suo canto del cigno, quel mondo di dames précieuses e hommes ridicules che marciva dalle fondamenta, quel profumo di talco per parrucche, abbondantemente versato a coprire fetori vergognosi, riesce a trascinare Grégoire nel suo incantesimo.

Il palazzo delle fate lo trattiene, sfuma sullo sfondo il suo intento umano, la bonifica delle paludi, il gioco e il sogno lo fanno dimenticare di sé, per un attimo, e di Mathilde, fanciulla sana, viso pulito, semplice nel vestire e autentica nel pensare, lontana da ambienti di corte e dedita a studi scientfici.

Ma alla fine l’incantesimo si rompe e Malavoy si rialza da terra dopo lo sgambetto ordito per ridicolizzarlo e pertanto colpirlo a morte,la cosa peggiore che potesse capitare a un individuo, allora, essere messo in ridicolo. E’ il momento del riscatto e della dignità, l’età dei lumi riprende il suo corso e la nuova concezione del mondo si afferma con orgogliosa prepotenza.

Leconte chiude su questa visione prospettica, Grégoire e Mathilde, due giovani e l’incanto della loro innocenza.

Si tratta di uno dei modi scelti dal cinema per ricostruire un’ epoca, certo insolito nel riprendere gli interni di corte come ambienti asfittici, polverosi e bui, puzza di orina ovunque in contrasto totale con l’ariosità degli spazi naturali dove si muovono Grégoire e Mathilde.

Forse l’intreccio narrativo non è il punto di forza del film, a volte scontato nello sviluppo, lo sfondo sociale è appena tratteggiato e così pure la rivoluzione che occhieggia solo sullo sfondo, ma non è il caso di tessere confronti con pellicole capolavori del genere.

A Leconte interessa il microcosmo umano, quell’impercettibile formarsi delle cose reali attraverso movimenti minimi, oggi come nel ‘700. E’ quel discorso che ha sempre fatto sulla natura umana, cambiano i tempi ma siamo sempre uguali.

Ridicule

Francia, 1996 durata 102’

regia di Patrice Leconte

con Charles Berling, Jean Rochefort, Judith Godrèche, Fanny Ardant, Bernard Giraudeau

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