TORN – STRAPPATI di Alessandro Gasmann

A proposito dell’arte in tempo di guerra

In Sarajevo c’erano le rose sul selciato. Si chiamavano così le schegge sparse a raggio delle granate esplose per strada.

In Sarajevo si facevano funerali notturni per evitare i cecchini. C’era la sete e c’erano le file alle fontane. C’era la fame, c’erano le file ai forni quando aprivano, c’era il freddo e nelle stufe si bruciavano i libri. Chi aveva più cultura resisteva meglio. C’erano le serate di poesia. Al buio, in qualche scantinato, si portavano le sedie e le candele.Si portava il bisogno di ascoltare parole a contrappeso della malora amara. I poeti dicevano a memoria i loro versi ad una folla gremita che in quelle ore sospendeva il lutto dei mancanti e delle mancanze. In quelle ore si erogava la caloria pulita erogata dall’attrito tra la poesia e l’ascolto.

Prima dell’alba ognuno rientrava con un po’ di scorta per il giorno seguente.Uno di loro a proposito di quelle sere scrisse: “Chi ha fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del nostro mondo? Noi, i poeti”.

(Erri De Luca)

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Si comincia da Sarajevo per parlare di Siria.

Sulla voce di Alessandro Gasmann che legge De Luca scorre una lunga panoramica sul campo profughi di Zaatari, in Giordania (80.000 rifugiati siriani, 80% donne e bambini).

Torna la vecchia sigla UNHCR, simbolo, più di venti anni fa, della madre di tutti gli assedi, Sarajevo. Cinque lettere stampate su tende bianche e containers che sfilano a perdita d’occhio fino all’orizzonte, chiuso da lunghe strisce di nuvole basse e grigie. Parlano di aiuti umanitari ad un popolo che in sette anni ha prodotto centinaia di migliaia di morti, 7 milioni di sfollati e 4 milioni di rifugiati nei Paesi limitrofi. Un esodo biblico.

Zaatari gode di una triste celebrità.

Il documentario, girato da Gasmann nel 2015, fu presentato a Venezia72, sezione Il cinema nel giardino, e ancora quell’anno una co-produzione Siria-Spagna portò Pablo Iraburu, Jorge Fernández Mayoral e Pablo Tosco a girare District Zero fra le strade ortogonali del campo, in mezzo a bambini che giocavano a palla, uomini in bicicletta, donne con secchi d’acqua. C’era Maamun, un tecnico informatico che s’inventò un modo per rendere sopportabile, se non normale, l’assurdità di vivere così: aprire un negozietto per stampare foto digitali e dare una possibilità a vecchi, donne e bambini alle prese con la memoria piena dei loro cellulari. Nonni scomparsi e feste di famiglia, giorni sereni di un passato finito chissà dove tornarono così a vivere nei lucidi cartoncini colorati e le pareti dei miserabili alloggi si riempirono di nuovi altarini.

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TORN racconta la Siria da un’angolazione diversa.

Come in District zero la guerra è una realtà invisibile e incombente, è parte dell’opera che senza la sua presenza non avrebbe modo di esistere, ma come in ogni grande teatro tragico è il male che respira accovacciato dietro la grande quinta di fondo. Sulla scena si muovono i protagonisti, artisti strappati alla  loro terra ma decisi a non apparire come vittime. Sono tanti, pittori, scultori, musicisti, poeti, registi di cinema e teatro, fotografi, una costellazione destinata a perdersi nel fragore di una guerra infinita se non la sostenesse una volontà di resistenza che affidano all’arte.

Si chiamano Mohammad, Ali Jazo, Mahmmad Orouba Deeb, Hammad Chantout, Rasha Deb, Lovai, Nour Shamma, Salam, Sari Kiwan, Nashaat, Rana Kazkaz, Alaa Arsheed, Raghad Mardini, Nasser Shorbaji, Bader Muhammed, Anas Khalaf e le loro parole sono il canto dei popoli che da millenni affidano all’arte la verità ultima, rasserenante, per sottrarsi alla precarietà dell’esistenza.

Mohammad è uno street writer, esce dal suo cubo di metallo coperto di graffiti e racconta di sé, ma parla al plurale.

Disegnavamo nelle strade, sui muri delle scuole, su tutti i muri che trovavamo, disegnavamo la guerra in Siria”.

Ha un sorriso largo Mohammad, intorno sciàmano bambini che sorridono come lui.

Ali Jazo parla da Beirut, ha studiato legge a Damasco, è vissuto un anno e mezzo in Siria, è giornalista e poeta. “Studiare legge in un paese senza legge …c’era una certa contraddizione… – dice con involontario umorismo e aggiunge – preferisco la letteratura e la poesia. La poesia è una sorta di risarcimento, una creazione mondiale alternativa ad una realtà difficile da descrivere realisticamente perché in Siria c’era sempre qualcosa di posticipato, c’era sempre qualcosa che sarebbe accaduto dopo, il futuro non si trasformava mai in presente”.

Hammad Chantout, pittore, si è diplomato nell’’84 a Parigi. Poteva restare lì “… ma ho pensato che ai francesi non servisse un artista in più…”.

Mohammad Khalaf nel campo di al-Zatari insegna fotografia ai bambini, Rasha Deb era scultrice ma le condizioni economiche create dalla guerra l’hanno costretta a smettere, “…mancanza di elettricità, materiali, era difficile, impossibile”. Ora dipinge tessuti, “sente” i colori, soprattutto il rosso sangue, quello nelle strade . La sua è la sintesi più stringente che capiti di ascoltare su guerra e pace: “Prima era diverso, poi la situazione è cambiata. Ecco cosa è successo in Siria”. Difficile dire di più.

Nour Shamma, attore, drammaturgo, siriano, rifugiato. Lovai musicista, viene dal Conservatorio di Damasco, insegnante e rifugiato. E sono rifugiati Salam, poeta, che dice: “Se la poesia finisse si interromperebbe la civiltà. La poesia è una parte essenziale delle radici degli Arabi, è il nutrimento dello spirito, in tutte le sue manifestazioni, nel canto, nei romanzi… Scrivo quello che è stato generato dalle ferite…” e Nashaat, scrittore: “A causa di questa situazione ogni siriano è diventato poeta, solo perché sono siriani e hanno testimoniato ciò che è accaduto. Si ritrovavano tra le mani un enorme materiale drammatico, qualcosa di forte, commovente, degno di essere letto”.

Nashaat legge una sua poesia, il viso si distende, sorride, parla di amore, delle trecce di una donna. Poi il sorriso si spegne e gli occhi guardano smarriti in macchina.

Un montaggio sensibile alterna uomini, opere, lente carrellate da sinistra a destra e ritorno lungo i fianchi del campo. C’è un silenzio irreale, uomini, donne, bambini si muovono senza rumore, fantasmi.

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Chi aveva più cultura resisteva meglio… A Sarajevo c’era una città con i buchi delle granate sui muri, c’erano i morti al mercato. Vent’anni dopo …“ Come si fa a mantenere vive le proprie idee se si viene privati della casa, della nazione… di tutto? ” .

Un buon titolo, TORN, come District zero, parole che dicono qualcosa di molto vicino al senso di un’altra parola celebre, Shoah, distruzione, radere al suolo.

Ma agli artisti l’umanità affida una grande responsabilità, è importante che la loro voce rimbalzi come un’eco e continui a volare sulle miserie del mondo. Chiudere con Adorno  allora è d’obbligo, la poesia di Celan convinse anche lui a recedere dal celebre interdetto (“La critica della cultura si trova dinanzi all’ultimo stadio della dialettica di cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie”).

Sul finire dei suoi giorni ecco cosa disse:

L’arte che non è più affatto possibile se non riflessa, cioè presa se non come un problema, deve da sé rinunciare alla serenità. E la costringono innanzitutto gli avvenimenti più recenti, il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un’arte serena(in Dialettica negativa).

Italia, documentario, durata 50’

di Alessandro Gasmann

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