Vita di O-Haru donna galante

“La vita di una mondana” (1686) di Ihara Saikaku è la fonte letteraria di Vita di O-Haru donna galante, ma per Mizoguchi Kenji c’è una storia molto più vera, la sua infanzia e il padre, piccolo artigiano del distretto di Hongo a Tokyo, ridotto in miseria e costretto a vendere Suzu, la figlia quattordicenne, come geisha.

In una vita relativamente breve (muore nel 1956 a 58 anni di leucemia), quando il riconoscimento mondiale della sua opera è iniziato da poco, traghettato dal trionfo di Kurosawa a Venezia nel ’51 con Rashomon, la genesi poetica del mondo di Mizoguchi è stata sempre rintracciabile nelle radici di una vicenda biografica emblematica per la rappresentazione di una società e di una cultura.

Quel suo ambientare le vicende nel passato feudale è, in realtà, un trasferirle verso un mondo apparentemente fuori dal tempo, in una dimensione che non appartiene a nessun genere definibile, non è epos e non è favola, non è storia né mito.

Mizoguchi Kenji crea una realtà nuova, come nota Jacques Rivette “Egli sembra essere l’unico regista giapponese che è completamente giapponese, eppure è anche l’unico che realizza una vera universalità, quella di un individuo”.

Ha visto la bruttezza della vita e l’ha rappresentata nei suoi film, ha costruito splendide allegorie ponendo al centro la figura femminile, sapendo che solo in essa poteva riscoprire la bellezza nascosta sotto la brutalità, il dono di sé totale e disinteressato in un mondo di uomini avidi e spietati, la dignità che sopravvive intatta anche nell’inferno in cui il potere relega le sue vittime.

La vita di O-Haru è un racconto sconsolato, che si snoda in un lungo flash back e torna, in chiusura, in quel tempio dove l’ex cortigiana reale, ora prostituta segnata dagli anni nel viso affilato e nelle occhiaie profonde, si è sentita attratta da suoni che tessono per tutta la durata del film una rete sonora fortemente evocativa, attingendo ad un repertorio di musicalità tradizionale che incide fortemente nel linguaggio filmico.

Fra le numerose immagini allineate come numi tutelari nel tempio, O-Haru rintraccia le sembianze di Katsunosuche, l’unico uomo che l’abbia amata e che lei amava.

La legge degli uomini si è abbattuta su di loro, colpevoli di appartenere a caste diverse, con la katana che ha tagliato la testa di Katsunosuche (uno splendido Mifune all’apice della carriera) e la caduta di O-Haru non ha più avuto fine.

Per la ripresa di lei che oltrepassa il ponte, costretta all’esilio con la famiglia, la macchina è posta sotto un’arcata, così da relegare la scena in un triangolo angusto di ombre che man mano si restringono.

La vita continuerà a stringersi intorno all’esile O-Haru, sembra non esserci fine alle sue disgrazie, ma regolarmente Mizoguchi ci pone di fronte ad una chiara individuazione di responsabilità sociali ed individuali, nulla che si possa attribuire al destino cieco.

La storia di O-Haru è fatta di tante tappe, si trasforma e cambia secondo gli stilemi inconfondibili di una drammaturgia che mette a fuoco i caratteri nei gesti e nella vocalità, apre e chiude porte e pannelli, fa attraversare la scena creando spostamenti temporali, progetta un ambiente che è teatro dell’azione e insieme racconto e commento,ogni parola diventa spazio, ogni gesto tempo.

Il ritmo predilige il passo lento, lo sguardo indugia spesso sui particolari con gusto pittorico e organizza lo spazio scenico con rigore geometrico, mentre dispone oggetti e persone con evidenza plastica.

Il suono dello shamisen, alternato a fiati e percussioni, è la base sonora e si colora di struggente amarezza nella scena di Shimabara, prostituta mendica che suona per strada, e un giorno sarà lei, O-Haru, al suo posto.

Opera di vigore doloroso nell’implacabile susseguirsi di ingiustizie, capace di comunicare un senso di disperazione profonda nel ritratto devastante di una donna portata alla rovina da regole a cui nessuno sembra voler opporsi, è l’allegoria di una condizione femminile certo estrema, ma solo in apparenza anacronistica, siamo costretti ad affermare, se ancora nel 2007 Hakuo Yanagisawa, ministro giapponese della salute, si esprimeva in questo modo in relazione al forte calo delle nascite che caratterizza il Paese del Sol Levante:

Care donne suonerà un pò sgarbato, ma datevi da fare per trasformarvi in macchine per procreare.Capisco che sia un po’ impropria l’equazione donne uguale a macchine da procreazione, ma a questo punto è giocoforza lanciare l’appello: date fondo a tutte le vostre energie per far funzionare al massimo la vostra macchina da procreazione “

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Saikaku ichidai onna – Giappone, 1952, durata 136’

di Kenji Mizoguchi, con Kinuyo Tanaka, Toshiro Mifune, Masao Shimizu, Ichirô Sugai

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