Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos

Didascalie in apertura

Questo film è dedicato a Gian Maria Volontè.”

Così allora anche l’anima, se vuol conoscere se stessa, dovrà guardare nell’anima.”

Platone, Alcibiade,I, 133B

Cigolio di una vecchia macchina da proiezione, immagini sgranate di donne che all’aperto tessono su antichi telai, la più vecchia guarda in macchina, curiosa e diffidente. E’ un povero villaggio dei Balcani, pietra e fango, qualche animale razzola.

1905, i fratelli Manakis girarono il primo film dei Balcani, “Le tessitrici”, tre rulli di negativi mai sviluppati e poi spariti, nessuno storico del cinema ne ha mai parlato.

La Cineteca di Atene ha affidato al regista greco, naturalizzato in America da trentacinque anni, il compito di cercarle. Per lui quella ricerca diventerà un fatto personale, la necessità di ritrovare lo sguardo perduto su un mondo completamente cambiato, irriconoscibile.

Quello dei Manakis è stato il primo film, il primo sguardo.

Il nuovo Ulisse dovrà compiere un lungo viaggio in quel teatro del mondo devastato dalla storia per ricostruire il nuovo sguardo, ma anche se alla fine troverà quei rulli, quel mondo non tornerà, troppo male è stato seminato, Penelope ha strappato la sua tela e i Proci si sono insediati stabilmente, i cecchini a Sarajevo ieri, i droni a Kiev oggi.

Le immagini sgranate dei fratelli Manakis sono come quelle parole scritte su papiri e antiche pergamene che consegnavano al futuro la storia e il pensiero dell’uomo.

Ma ora nessuno può capirle.

La Grecia sta morendo. Il nostro popolo sta morendo. Abbiamo completato il nostro ciclo storico. Tremila anni tra statue e rovine, e adesso stiamo morendo. Ma se la Grecia deve morire, che muoia presto, perché l’agonia è  lunga e fa troppo rumore.” dice il tassista che ha portato l’uomo da Atene fino al confine con l’Albania.

Da lì, lungo strade innevate, confini e posti di blocco dove essere straniero è già una colpa, attraverso paesi solitari, guardando le rive di un mare plumbeo, disseminate di clandestini in cerca di lavoro, l’uomo arriverà a Sarajevo.

Nel cinema di Angelopoulos il viaggio è uno star fermi in lunghe attese, un muoversi con passi lenti e pesanti, come in un incubo. Quanti confini dobbiamo attraversare prima di tornare a casa?” si chiede Mastroianni, il politico che ha abbandonato tutto, il ribelle de Il passo sospeso della cicogna.

Il nostro triste secolo che nega all’uomo il diritto millenario di essere un nomade, di muoversi sulle tracce di quegli antichi padri che dalle steppe e dai ghiacci del nord o dai deserti del sud marciarono in cerca di fiumi, mare, buone terre da abitare, ora canta nel cinema di Angelopoulos la trenodia dell’uomo che ha perduto la sua patria millenaria.

Con largo anticipo rispetto al tragico acuirsi del fenomeno, il grande Maestro del cinema greco ha raccontato per simboli e allegorie l’esperienza degli immigrati, il loro straniamento.

“Tra rovine e statue” ha detto il tassista.

Segni di una civiltà che ha creato il mondo, ora rovine di un Paese diventato solo un’espressione geografica, sono la tragica prova dell’esilio a cui l’uomo si è condannato, credendo di poter dimenticare i padri approdando su Marte.

Fra i rulli perduti e il presente si è stratificato un mondo alieno, un grottesco pervertimento, come la gigantesca statua a pezzi di Lenin che viaggia su una chiatta lungo il Danubio diretta in Germania, comprata “da collezionisti” , dicono al regista.

Lo sguardo di Ulisse segna il confine definitivo tra Grecia e Germania, simboli del mondo antico e del mondo nuovo. 

La storia della Grecia, perdendosi, ha trascinato con sé tutta la striscia balcanica, il cinema politico di Angelopoulos non ha mai smesso di dirlo.

L’enorme mano di pietra che esce grondante dall’acqua in Landscape in the Mist davanti agli occhi sbalorditi di Voula, Alexander e Oreste, è il segno di quel legame culturale interrotto.

Non è un cinema facile quello di Angelopoulos, benchè parli di popoli in miseria, bambini in fuga, e musica, balli e antiche tradizioni siano sempre presenti. I temi persistenti e l’audacia visiva, la ricchezza e la pregnanza delle immagini non bastano per capire, si sono perse le chiavi di lettura, come le bobine dei Manakis.  

L’ascesa e la caduta del comunismo, le devastazioni della seconda guerra mondiale, la difficile marcia della Grecia verso la modernità all’inizio e alla fine del XX secolo, la guerra in Jugoslavia e oggi in Ucraina hanno scavato trincee profonde.

Il protagonista del film è un Harvey Keytel che incarna tutte le frustrazioni dell’esule, si muove come in trance tra il sogno, che gli porta immagini del passato, famiglia, amici, espropriazione di beni in nome della rivoluzione, e la realtà di posti di frontiera, stazioni ferroviarie, piazze deserte e strade innevate.

A Skopje incontra un amico di gioventù e di grandi speranze a Parigi, con lui brinda a quegli anni perduti: “Ci siamo addormentati dolcemente in un mondo e ci siamo svegliati bruscamente in un altro…Facciamo un brindisi al mare, l’inesauribile mare che è il principio … Devo andare a Sarajevo …”

Benvenuto a Sarajevo

La Bosnia è l’arrivo, la meta. Una terra devastata l’accoglie con tracce immediate dell’orrore, una donna che piange il marito morto, una casa diroccata sul bordo del fiume che l’ha portato fin là, superando quelle strade pericolose, La donna è sempre la stessa, come le altre che l’uomo ha incontrato lungo il viaggio, sul loro viso si sovrappone quello della donna lontana che ha perduto andando via, e ancora una volta sparirà.

L’arrivo a Sarajevo è un documento di cronaca sconvolgente.

Nel 1995 Angelopoulos girava il film a guerra appena conclusa, tutto era ancora come era  diventato in cinque anni di assedio, i palazzi sventrati sembravano guardare con le orbite vuote delle finestre. Per le strade si correva, a Sarajevo si doveva correre, i cecchini erano sulle colline intorno alla città.

Il regista arriva a guerra ancora in corso, un tank lo supera, macchine ardono ai lati della strada, la gente corre, correrà anche lui con Ivo Levi, l’uomo che doveva incontrare.Boati in lontananza, corrono, riparano dietro un relitto.

Benvenuto a Sarajevo gli dice Ivo.

E’ l’ultima e unica scena girata da Gian Maria Volontè. Ora l’interprete è Erland Josephson.

Uno sguardo che cerca di uscire dall’oscurità, una specie di nascita” sono le parole che spiegano a Ivo Levi il perché di questo lungo viaggio per arrivare fin là, nella cineteca salvata dalle bombe, dove sono le bobine e i grandi del cinema che hanno raccontato la storia del secolo.

Ivo ha sviluppato la pellicola, fuori sembra festa, a Sarajevo si torna a vivere quando scende la nebbia e i cecchini non vedono, si esce, si balla, un’orchestra di giovani suona spostandosi nei quartieri.

Ma non è il lieto fine, qualcosa di agghiacciante deve ancora accadere.

La musica struggente e appassionata di Eleni Karaindrou accompagna l’uomo che incontra uomini e donne reali, da amare, o irreali da ricordare, lunghe carrellate e lente panoramiche, fotogrammi fissi di forte valenza pittorica e la forma dell’acqua, il mare o il Danubio, presenza fissa in Angelopoulos, sono parti di una formidabile orchestrazione registica.

L’Odissea dell’eterno Ulisse si snoda senza una trama narrativa lineare, nel cinema di Angelopoulos inutile cercarla. Ci si muove per focalizzazioni e dissolvenze, la nebbia che ristagna su Sarajevo nell’ultima sequenza è l’epilogo di quel lungo sguardo.

E’una discesa nell’Ade, il triste luogo dei morti, dove Odisseo incontra i compagni persi in guerra, ma dove, anche, riceve profezie sicure sul suo ritorno in patria.

Per l’uomo contemporaneo in viaggio per terre non più sue nessun Tiresia indovino che gli predica il ritorno.

Un ricordo

Theodoros Angelopoulos morì nel 2012 investito da una motocicletta mentre camminava vicino al set di quello che sarebbe stato il seguito de La polvere del tempo, un film intitolato The Other Sea (che parlava della crisi finanziaria greca), La sua scomparsa, come sempre accade, ha acceso l’interesse per il suo cinema, 13 lungometraggi che, se non tutti capolavori, ci vanno molto vicino.

Sul set de Lo sguardo di Ulisse, il 6 dicembre 1994 moriva un altro grande del cinema, Gian Maria Volonté, stroncato da un infarto, sostituito nella parte da Erland Josephson.

Gran premio a Cannes 1995 – premio internazionale della critica al film.

Lo sguardo di Ulisse

Francia, Grecia, Jugoslavia 1995 durata 180′

Titolo originale To vlemma tou Ulisse

Regia di Theo Anghelopoulos

Sceneggiatura Theo Angelopoulos e Tonino Guerra

Con Harvey Keitel, Maia Morgenstern Erland Josephson

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