Omicidio al Cairo di Tarik Saleh

Un film a combustione lenta, The Nile Hilton Incident, Tarik Saleh, il regista, si muove inizialmente senza concitazione per i quartieri degradati del Cairo, in interni di povertà endemica, in mezzo ad un popolo miserabile e dentro un commissariato che ha tutta l’aria di un covo di camorristi, dove i capi prendono mazzette, i graduati taglieggiano ambulanti e negozianti, i politici che contano sono riveriti con “baciamo le mani” in salsa egiziana ad ogni passaggio.

Avvertiamo però un crescendo che si sviluppa lungo una traiettoria verticale, dalle strade della miseria, del malaffare, dei mercatini rionali pittoreschi e gremiti ai grattacieli di una speculazione edilizia brutale e impunita, dai piccoli traffici loschi di malavitosi e agenti della sicurezza fino agli intrighi nelle alte sfere del potere politico ed economico.

Saleh gira un polar con sfumature noir, ma in fin dei conti The Nile Hilton Incident è soprattutto un film politico.

La ripresa finale, dall’alto, di piazza Tahrir e dintorni piena di giovani con bandiere e cartelli inneggianti alla rivoluzione, con il ragazzo che ferma il pestaggio del poliziotto gridando ai compagni: “Non siamo come loro”, è il vertice della piramide, siamo dalle parti del cinema di denuncia, la materia molle di una vicenda privata diventa un monumento di duro marmo alla memoria di un sogno finito sul nascere, la primavera araba.

Tradurre con Omicidio al Cairo il titolo originale The Nile Hilton Incident suona quasi blasfemo, sembra che sulla scena debba arrivare da un momento all’altro Monsieur Poirot, e si vanifica così quel sottile espediente linguistico carico di denuncia civile e politica che fa chiamare “incident” un omicidio a tutti gli effetti.

Una cantante, modella, probabilmente anche escort, è stata massacrata in una stanza dell’Hilton, un membro del governo, parente di Mubarak, è coinvolto, la storia è vera e risale al 2009. Un caso classico, una vicenda che nella fiction di tutte le cinematografie ha sempre trovato spazio e grandi protagonisti.Quello che qui cambia è il legame forte con la realtà di un Paese che ha in incubazione una rivoluzione pronta ad esplodere contro un regime corrotto e corruttore.

Una delle rivoluzioni “possibili, necessarie e inevitabili, una delle cose che non si possono evitare,” così le definisce a-posteriori Tariq Teguia, regista algerino in Zanj Revolution, visto a Pesaro52, un film sulle primavere arabe archiviate, sognate con forza e fallite in un mare di paure, incomprensioni, “prigionieri dei nostri interrogativi, delle nostre contraddizioni” continuava Teguia.
Saleh si muove alla vigilia della rivoluzione, punta l’attenzione su un sistema fatto di collusioni, abusi, malgoverno, negazione dei diritti civili più elementari partendo da un caso che mette a nudo tutti i gangli corrotti del potere.

Consapevoli che ogni regime autoritario ha negli omissis, negli archivi segreti, nelle parole che nascondono i fatti le proprie carte vincenti, capiamo a circa metà film che il maggiore, poi nominato colonnello, Noredin Mostafa (Fares Fares) non ha nessuna speranza, e non tanto perché anche lui ha un passato di compromissione con i poteri forti (la violenza del regime impone di “far torto o patirlo”, citazione manzoniana buona anche due secoli dopo) quanto perché in un mondo così degradato non restano spazi di legalità e sembra che tutte le rivendicazioni di ordine e giustizia passino inevitabilmente per la bocca di un revolver .

Un film che rinuncia alla speranza, alla vigilia della rivoluzione ne preconizza già il fallimento, la polizia sparerà su studenti inermi, sul terreno resteranno centinaia di vittime e il sistema si riprodurrà intatto anche dopo la cacciata del dittatore.

La formula “resistenza cinematografica” che Massimo Causo usa per il cinema del turco Yilmaz Güney, regista all’indice nel suo Paese, in carcere e poi in esilio a Parigi dove morì clandestino nel 1984, autore di capolavori che la dittatura temeva più di una rivolta armata, si può estendere a molti registi di aree a rischio che i premi internazionali riconoscono (The Nile Hilton Incident ha vinto il Sundance 2017) ma poi spariscono dalle sale o, peggio, non trovano più produttori disposti a rischiare.

Yilmaz Güney

Qui si racconta una storia avvenuta al Cairo e conclusa a Dubai con il rilascio del colpevole, nonostante la condanna morte. Sullo sfondo c’è un Paese senza tutele democratiche, con divisioni di classe macroscopiche, la giustizia assente, degrado ambientale e prostituzione trionfante, quartieri privilegiati di ricchi dediti al golf e a festini nel tempo libero e baracche dove si può morire e sparire senza un vero perché.

Il vuoto finisce allora per essere riempito da un radicalismo musulmano che il regista inquadra in un breve ma illuminante flash, una strada bloccata da una massa di uomini accovacciati in preghiera ripresi di spalle.

 

Questa la testimonianza del regista, intervistato a Milano nel 2017:

“Dubai sulla carta è una città aperta, ma in realtà è un luogo in cui il potere politico e il denaro vano a braccetto. E la cosa terribile è che proprio a Dubai, la condanna a morte di Talaat Moustafa è stata trasformata in ergastolo e poi annullata, tanto che questa estate lo hanno rilasciato, nonostante sia colpevole a tutti gli effetti. E’ stato perdonato dal nuovo presidente. Oggi l’Egitto è un paese dove un colpevole di omicidio viene perdonato perché è ricco ma dove non puoi fare un film su quell’uomo e nemmeno andare a vederlo, sennò ti arrestano.

Mentre scrivevo la sceneggiatura (nel 2010), mi dissi: non la trasformerò mai in un film, visto che c’è Mubarak al potere. Il copione, comunque, che terminai nel 2010, finiva con la Rivoluzione, cosa che all’epoca mi sembrava assurda. E invece nel 2011 la Rivoluzione effettivamente scoppiò e all’inizio mi dissi: è fantastico, adesso le cose cambieranno, è un nuovo inizio, è il Muro di Berlino che è caduto ancora una volta. Poi, dopo due mesi, la mia parte cinica cominciò a pensare: no, non, no, ci sarà un vuoto, e questo vuoto sarà riempito da un diverso potere, e allora mi apparve chiarissimo che la vera battaglia si sarebbe combattuta fra i Fratelli Mussulmani e l’esercito. Quanto ai giovani che si erano ribellati e che desideravano un futuro diverso, furono derubati della loro Rivoluzione”

Si potrebbe intitolare allora Prima della rivoluzione in ricordo di un famoso Bertolucci opera seconda? La vicinanza sarebbe solo nel titolo, nulla che unisca mondi così lontani e nessun poliziotto come Noredin direbbe quello che dice  Francesco Barilli, giovane esponente della borghesia parmense: “Chi non ha conosciuto la vita prima della rivoluzione, non può sapere cosa sia la dolcezza di vivere“.

Nessuna dolcezza in un mondo che Tarik Saleh fotografa in molti angoli, se ne esce con l’idea chiara di una città espropriata della sua bellezza, deturpata dalla corruzione e dalla violenza, capitale di un Paese dove la vita è a rischio e “casi Regeni” sono la normalità non l’eccezione.

 

Omicidio al Cairo

titolo originale: The Nile Hilton Incident

Svezia, Danimarca, Germania 2017 durata: 106 min.

regia di Tarik Saleh

con Tareq Abdalla, Yasser Ali Maher, Nael Ali

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