Sull’Adamant di Nicolas Philibert

In sala per tre giorni, sottotitolato, il documentario di Nicolas Philibert che ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino 2023, Sur l’Adamant.

Definirlo documentario è riduttivo, è un atto d’amore per il popolo dei “folli”, una zattera di Géricault declinata al presente, ormeggiata lungo la Senna, nel cuore di Parigi.

Struttura galleggiante che accoglie di giorno uomini e donne che arrivano da esistenze segnate da disturbi psichici che li avrebbero condannati alla solitudine, all’emarginazione, nelle loro case o in strutture ospedaliere, è un luogo in cui gli ospiti esprimono quello di sé che li tiene in vita: cantare, suonare, ballare, dipingere, riuscire a parlare di sé.

Forse ho la testa leggermente rotta”, è il commento tenero e straziante di chi sa di essere “diverso”, perché così l’hanno fatto sentire per anni gli “uguali”. Sull’Adamant si ridiventa uomini e donne che hanno da dire cose, a loro ma soprattutto a noi, il popolo degli indifferenti che di rado o mai si fermerebbero ad ascoltarli.

Philibert li guarda vivere, ne coglie la smarrita presenza che traspare da un tic, da una frase, da un concitato descrivere un progetto, come temendo di non essere ascoltati. Ci sono psichiatri, infermieri, psicologi, bravi, attenti, ma altri da loro, e il dottore che nel finale ascolta la donna che vuol creare un laboratorio di danza, e lo descrive con l’ansiosa accelerazione verbale di chi è abituato a non essere preso sul serio, sì, quel dottore è il “normale” che la sera tornerà a casa fra i “normali” come lui, e penserà alla sua giornata come una giornata di servizio, magari come un’opera di bene.

Philibert no, li fa tornare al posto giusto, là dove hanno il diritto di essere quello che sono, uomini e donne che hanno dentro tesori di arte, bellezza, bontà, ironia e gioia di essere al mondo.

E allora c’è quello che canta, un altro che suona, chitarra o piano, quello che ci sa fare con colori e pennarelli, quello che disegna una testa che sta fra Picasso e Dalì e spiega che il collo dovrebbe stare da un’altra parte e il naso è troppo grosso, perciò lo intitolerà “Il naso che non ci doveva essere”.

C’è quello che vive come sdoppiato e sa di esserlo, sa che senza i medicinali crede di essere Gesù, ma va bene così, in fondo forse Gesù era più matto di lui. Certo era un visionario alla grande tra i predicatori del deserto, come negarlo?

In apertura uno degli ospiti canta una canzone dei Téléphone: Voglio parlarti di te, di me/Vedo dentro immagini e colori/Che non sono mie, che a volte mi fanno paura.

Sull’Adamant sparisce la paura, Philibert entra con la sua mdp in punta di piedi, non fa un reportage né cerca l’inquadratura perfetta, è una galleria di volti guardati, di voci ascoltate, è vita quotidiana di un popolo galleggiante sulle acque della Senna.

Forse da lì vedono tutti i giorni la Tour Eiffel e sono contenti.

Dietro ogni scemo c’è un villaggio

Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole,
e la luce del giorno si divide la piazza
tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa,
e neppure la notte ti lascia da solo:
gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro

E sì, anche tu andresti a cercare
le parole sicure per farti ascoltare:
per stupire mezz’ora basta un libro di storia,
io cercai di imparare la Treccani a memoria,
e dopo maiale, Majakowsky, malfatto,
continuarono gli altri fino a leggermi matto

E senza sapere a chi dovessi la vita
in un manicomio io l’ho restituita:
qui sulla collina dormo malvolentieri
eppure c’è luce ormai nei miei pensieri,
qui nella penombra ora invento parole
ma rimpiango una luce, la luce del sole

Le mie ossa regalano ancora alla vita:
le regalano ancora erba fiorita.
Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina
di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina;
di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia
“Una morte pietosa lo strappò alla pazzia”

Fabrizio De André

Sull’Adamant

Francia Giappone durata 109′

di Nicholas Philibert

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