I Clowns di Federico Fellini

Il bambino, ormai grandicello, vede crescere nel campo brullo davanti casa un gran tendone rotondo che finisce a punta sulla sommità. Non sa cosa sia e la mamma, indaffarata tra cucina e panni da stirare, se la sbriga con un minaccioso: “Sono i pagliacci, stà bono se no te faso portar via da quei zingari”.

Di sera il tendone diventa un’immensa torta sfavillante di luci, il ragazzino è dentro, immobile, un’ombra presa di spalle, davanti a lui il Circo e tutto quello che un Circo è capace di produrre, lì, davanti ai suoi occhi.

La sera, a letto, la magia continua, rimbomba nelle orecchie e crea incubi.I pagliacci l’hanno spaventato. Da grande capirà che tipo di emozione può creare una maschera, ma ora è piccolo e un pagliaccio non è un giocattolo, come si crede.

Fellini parte così, dall’infanzia, la sua, e da quella di tutti, con le paure, la curiosità, le piccole angosce e gli sberleffi, le maschere del Circo e quelle della strada.

Fellini è così dentro questo film con la sua vita che entra lui stesso, di persona, un distinto cinquantenne alla guida di una troupe, sgangherata quanto basta per essere in sintonia con quel mondo da registrare su pellicola. Una segretaria di edizione squinzietta e pasticciona, Alvaro Vitali proiezionista con mammà al seguito, l’operatore, inglese, con la faccia da siciliano, e un indistinto omaccione di fatica con la voce da orco. Girano insieme per piazze e Circhi d’Italia, poi vanno in Francia, la RAI dei tempi d’oro, nel 1970 affidò a Fellini la creazione di un lungometraggio sul Circo, doveva essere un documentario, ma chi riesce a credere che in mano a Fellini non sarebbe diventato molto altro?

Una rievocazione più o meno nostalgica di un mestiere scomparso diventa una favola, una tela di Chagall, un sogno in formato cinemascope, un riaffiorare di sensazioni, ricordi, flash di storie lontane che la memoria ricompone in un lungo rotolo presente.

Le maschere dei clowns creano un confronto immediato con quelle, vere, dei ricordi d’infanzia.

Il minus habens infoiato perpetuo delle contadine al lavoro nei campi, l’ubriacone che la moglie, un donnone, si porta a casa in carriola, la biondona sexy che appare al bar col riccone ingessato e il play boy de noantri che la fulmina con sguardo assassino, il capostazione, paonazzo e baffone, e le pernacchie che i ragazzini gli fanno dai finestrini del treno.

Disgraziati! Lo dirò alle autorità competenti!”

E un giorno l’autorità competente è con lui, sulla banchina, e dai finestrini scattano cento braccia in alto col saluto fascista.

La rievocazione privata nella prima parte del film, la più autenticamente “felliniana”, si dilata a ricordo di una storia ormai finita, quella del Circo, e fra i suoi protagonisti i più importanti, quei sinonimi assoluti del Circo che sono i clowns.

Lunghe sequenze di spettacolo ricostruito con precisione filologica si alternano a brevi incursioni nel mondo privato di alcuni superstiti, famosi e vecchi clowns spesso malati, ma sempre legati a quella vita totalmente racchiusa nello spazio di un tendone.

Così legati da fuggire dall’ospedale e andare a morire sulla panca di legno durante lo spettacolo!

Quella del Circo è stata una lunga epopea smagliante, Fellini incontra gli Orfei, addirittura Anitona s’infila a forza in una scena perché, dice, vuol acquistare un leopardo.

Signora – le fa Liana Orfei con tono acido quanto basta – dovrà comprare anche il domatore!

Una storia da non dimenticare, anche se è finita, la modernità se l’è portata via e nulla potrà mai sostituirla, neppure il cinema.

Si può immaginarla con la fantasia del più grande portatore sano di fantasia del secolo scorso, Federico Fellini, e con la musica di Nino Rota che supera sé stesso per l’occasione.

I nomi dei grandi pagliacci della storia sfilano tutti, o quasi, i loro lazzi, il gran chiasso, gli scherzi e pure funerali in scena.

La morte di Augusto è un pezzo di bravura che non si può liquidare con “spettacolo circense”, è teatro comico al massimo delle sue capacità.

La Morte di Augusto Pagliaccio

E la struggente scena finale, il clown stanco che racconta a Fellini, a luci ormai spente, una storia, quella dell’amico morto e lui non sapeva nulla.

Scena finale

La vita e la morte, la gioia e il dolore, i ricordi d’infanzia e la vita che sfugge e declina senza tregua, la fama e l’oblio.

Il “finto documentario” che tanto intrigava Fellini fin dai Bloc-notes di un regista diventa vita pulsante, meditazione pensierosa sul tragico che ogni comico nasconde sotto la spessa vernice di cerone, una comédie humaine che dal grande romanzo ottocentesco francese di Balzac e Hugo era già approdata al cinema con i “Funambules” di Carné in Les enfants du Paradis .

Les enfants du Paradis

E poiché, ricorda Shakespeare: “ Il mondo è un palcoscenico in cui uomini e donne sono gli attori. Essi vi fanno i loro ingressi e le loro uscite”, non resta che entrare con Fellini in questa fantasia e fingere che sia tutto ancora vero.

 

 

I Clowns

Italia 1970, durata 92’

Regia: Federico Fellini

Soggetto: Federico Fellini, Bernardino Zapponi

Fotografia: Dario Di Palma

Musica: Nino Rota

Costumi: Danilo Donati

con Liana Orfei, Rinaldo Orfei, Nando Orfei Anita Ekberg Tristan Rémy Maya Morin Lina Alberti Alvaro Vitali Gasparino Bevilacqua

I clowns: Billi Scotti Fanfulla Reder Valentini Merli Rizzo Pistoni Furia Sbarra Carini Terzo Vingelli Fumagalli Zerbinati I 4 Colombaioni I Martana Maggio Janigro Maunsell Peverello Valdemaro Sorrentino Alex Bario Père Loriot Ludo Charlie Rivel Maiss Nino Pierre Etaix Victor Fratellini Annie Fratellini Baptiste Rémy Pipo Rhum Buglioni Hugue

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