Il GOLEM di Paul Wegener

Prosegue con Il Golem la rassegna sul Cinema Espressionista tedesco a cura di Valerio Vannini.

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Sinossi

Nella città di Praga il rabbino Löw, osservando le stelle col suo telescopio, si convince che una catastrofe sta per abbattersi sugli ebrei, e va ad avvertire il capo della comunità che sta officiando una cerimonia notturna nella sinagoga.

A conferma di questa predizione, la mattina successiva l’imperatore emette un decreto di espulsione di tutti gli ebrei. Il decreto è affidato al messaggero Florian affinché lo recapiti alla comunità.

Nell’eseguire il suo incarico, il giovane incontra Miriam, la figlia del rabbino.

Nel frattempo Löw pensa a come ci si possa difendere.

Dall’antica Cabala ricava il segreto per modellare una grande statua d’argilla. Poi evoca il demone Astaroth che emette un denso fumo che, nel condensarsi, forma la parola magica “aemet” (vita). Löw la trascrive su una pergamena. Attraverso la pergamena che pone sopra il cuore della statua d’argilla riesce a dare vita al Golem e a farlo diventare suo servitore.

Löw, invitato al castello per una festa, viene deriso dai cortigiani a causa del servitore di creta che si porta dietro.

All’improvviso, il soffitto della sala cede ma il Golem riesce a trattenere le travi con le sue braccia e salva tutti. In segno di riconoscenza, l’imperatore revoca il decreto di espulsione.

Miriam, intanto, ha accettato la corte di Florian ma l’assistente del rabbino, innamorato della ragazza, gli scatena contro il Golem che scaraventa il giovane giù dalla torre e poi prende in braccio Miriam, che lo respinge e sviene.

Sentendosi rifiutato, il mostro per vendicarsi dà fuoco al quartiere ebraico e, sempre con la ragazza in braccio, dopo aver girovagato fra le macerie dei vicoli del ghetto e affrontato con veemenza tutti quelli che incontra, imperatore e rabbino compresi, arriva finalmente in un prato.

Lì incontra una bambina che gli tende la manina per niente spaventata dal suo aspetto.

Il Golem sorridendo la solleva tra le braccia, ma la bambina per gioco gli strappa dal petto la pergamena. Perduta la forza della magia la statua d’argilla, ormai priva di vita, crolla a terra in frantumi.

Il soggetto e il regista

Paul Wegener ((Arnoldsdorf, 11 dicembre 1874 – Berlino, 13 settembre 1948)

Molti film si sono ispirati alla leggenda del Golem.

Potremmo citare quello di Julian Duvivier del 1936, la versione cecoslovacca dal titolo L’imperatore della città d’oro  realizzata da Marc Fric nel 1951 o,  per arrivare a date più recenti, la curiosa  rilettura fatta nel 1991 da Amos Gitai che, annoverando nel cast la presenza inusuale di un  folto stuolo di  registi di primo piano disponibili alla collaborazione in veste di attori (nomi importanti del  calibro di  Philippe  Garrell, Samuel Fuller e del nostro Bernardo Bertolucci) ha come protagonisti, proprio nelle vesti dell’automa, gli spaesati Hanna Schygulla e Vittorio Mezzogiorno.

C’è poi da ricordare anche quella meno conosciuta, ma altrettanto particolare, girata nel 2003 da Louis Nero, realizzata con il contributo della regione Piemonte e la voce narrante di Moni Ovadia (una sorta di ipertesto frammentato in suggestioni mitico-culturali, simbologie cabalistiche e visioni a flusso continuo, come l’ha definita M. Caron). 

Il cantore per eccellenza del “mito” è stato comunque Paul Wegener  che sull’argomento ha realizzato e interpretato ben tre opere, tutte ascrivibili al ristretto novero dei risultati più fecondi e significativi della corrente espressionista del cinema tedesco: nel 1915 (Der Golem, und wie er auf die Welt kam), nel 1917 (Der Golem und die Tanzerim) e nel 1920 (Der Golem, co-regia di Carl Boese, fra tutte quella più compiuta, importante e articolata, che è poi quella alla quale mi riferisco con queste note).

Tutte le pellicole sopra citate, seppure con spirito interpretativo non sempre uniforme fra loro, traggono origine  da antichissime leggende medievali ebraiche e praghesi,  più volte riprese e rielaborate da scrittori cecoslovacchi e tedeschi di varie epoche e tendenze, ma tutte narranti la storia del rabbino Löw  che, ricorrendo a formule magiche, riesce a plasmare con la creta un automa umanizzato – il Golem – perfettamente simile nelle sembianze ad un essere umano, anche se di proporzioni più gigantesche.

Questa creatura è però privata del più grande bene che la vita può offrire, quello di dare e ricevere amore, e ciò sarà una delle ragioni determinanti  che lo porteranno a scatenare la sua feroce rabbia contro l’imperatore e il suo stesso creatore, reo di averlo reso “mostro”.

La parabola, che simboleggia la presunzione umana di chi vuole imitare la creazione divina costruendo a sua volta un essere a propria immagine e “simiglianza”, senza che sia però capace di infondergli anche un’anima, ha trovato la sua sintesi più celebrata e definitiva (oltre che il riferimento più specifico) nella  penna dello scrittore austriaco Gustav Meyrink (ne è debitrice in buona parte anche la Shelley per il suo Frankenstein) che dette alle stampe nel 1915 il romanzo corrispondente, con il quale fornì finalmente al personaggio la dimensione  necessaria per  entrare a  pieno titolo fra i classici immortali.

Il film: struttura e prospettiva critica
La versione cinematografica più pertinente del Golem è proprio quella del 1920,  basata sulla sceneggiatura  dello stesso Wegener e di Henrik Galeen che ben evidenzia, insieme a quella della rivolta, anche le tematiche dell’umanizzazione della creatura e dell’impossibilità di appagamento del suo desiderio.

Inoltre, nella realizzazione pratica del progetto, il film si avvale della sorprendente magniloquenza  di un originalissimo impianto scenografico post-espressionista (o che potrebbe meglio essere definito il felice esito di una intelligente rivisitazione ragionata del modello espressionista)  realizzato con eccezionale competenza visionaria da Hans Pöltzing.

Si notino, fra le tante splendide invenzioni visive che caratterizzano il film, l’architettonica composizione antropomorfa delle costruzioni e degli scenari, come le case del ghetto che richiamano la psicologia e i costumi dei suoi abitanti, il suggestivo particolare della scala a forma di padiglione auricolare e le volte carnose della camera di Miriam.

Notevole e stupefacente è anche il perfetto amalgama fra i fondali e le figure che ci si muovono davanti e intorno, soprattutto nei passaggi più arditi e innovativi, come quello dell’apparizione della progenie ebraica.

Notevolissima la maestria tecnica raggiunta anche nell’emozionante passaggio che ci mostra i multiformi e mutevoli movimenti della folla nella sequenza dell’evocazione di Asteroth, di una potenza dinamica e fluidità espositiva davvero inusuali per l’epoca.

Pochi mesi soltanto separano quest’opera dal Caligari di Wiene, del quale è senz’altro debitrice nell’ispirazione, ma  la differenza delle forme (qui molto più avvolgenti e meditate ) è molto evidente, grazie anche alla  straordinaria fotografia  di Karl Freund, che si avvale di effetti illuministici di derivazione reinhardiana tali da rendere tangibili allo spettatore le differenze anche strutturali esistenti fra le due pellicole.

Si deve allora parlare in questo caso di qualcosa di più e di meglio di un “calligarismo” di riporto, termine con il quale vennero spesso etichettate nell’immediato – e in senso non sempre in positivo – tutte le pellicole realizzate  dopo quel capostipite importante  che aveva fatto tendenza.Bisogna infatti considerare che Wegener,  oltre ad aver già incontrato il Golem nel 1915 e nel 1917, nel 1913 era stato pure l’interprete principale (ancora in coppia con Lydia Salmonova) di quel Lo studente di Praga del danese Stellan Rye (purtroppo andato perduto) che è uno dei precursori riconosciuti della corrente.

Rye resta infatti, a pieno titolo, una delle figure più interessanti e creative fra quelle che prelusero all’espressionismo tedesco vero e proprio.

Egli può essere considerato persino un anticipatore, essendo stato l’autore al quale  attribuire proprio la matrice di quella specifica modalità espressiva che è il calligarismo

Il suo La casa senza porte né finestre, che l’intellighenzia critica poco informata  dell’epoca, incapace di verificare persino il calendario, considerò a torto e per molto tempo poco più che una scopiazzatura del film di Wiene,  lo precede invece di circa sei anni (è stato realizzato nel 1914).

Si dovrà convenire allora che i germi fecondi, le ipotesi, i suggerimenti, le intuizioni, circolavano già da tempo, si propagavano nell’aria e nelle menti così trasversalmente da rendere difficoltose attribuzioni di paternità certe. Di conseguenza, dovrebbero adesso essere sfatati alcuni dei luoghi comuni sull’argomento e riconsiderati – oltre che definiti meglio – molti postulati un tempo ritenuti inamovibili.

Tornando al film, si può aggiungere che anche Siegfrid Krakauer, con il suo fondamentale e imprescindibile saggio From  Caligari to Hitler col quale ha inteso stigmatizzare i mali di una società e di una nazione utilizzando l’analisi delle opere cinematografiche realizzate nel periodo di riferimento da registi di indiscusso talento, ne marca le differenze.

Se aveva giustamente osservato che il Caligari  di Wiene ha aperto le porte a “un corteo di tiranni”, esprimendo così un giudizio anche politico, parlando del film di Wegener fa invece una implicita allusione alla ragione quando scrive che il Golem “si serve della forza bruta per liberare gli oppressi.

Non è però dello stesso avviso Sadoul che, indagando il problema da una prospettiva più storico-cronachistica, osserva acutamente che nell’intero ciclo espressionista esisteva soprattutto il senso di un “lugubre presagio”, esorcizzante ma impotente, che preannunciava la sciagura del nazismo.

Ha scritto infatti Sadoul che “… se Nosferatu il vampiro (Murnaucon il suo esercito di topi è il sinistro messaggero della peste e Der müden Tod (Lang) ci rinchiude dentro un penitenziario dai muri interminabili che obbliga l’uomo – Sisifo a rotolare di secolo in secolo lo stesso masso senza soluzione di continuità, sono poi gli evasi dal Gabinetto delle figure di cera (Leni, 1924) […] che instaurano sulla terra il regno della ferocia  e le torture descritte dal Marchese de Sade”.

Ma è stato proprio con Der Golem che si sono definite ancora prima le sorti funeste dell’umanità, poiché “… il personaggio di Wegener è non tanto l’androide che libera dai suoi carnefici il popolo ebreo, quanto l’automa che diventa egli stesso tiranno.”

Osservazioni, queste, giuste e inoppugnabili se ci concentriamo soprattutto sul valore simbolico della figura del Golem e ci astraiamo dalla carica di umanità che, nonostante tutto, esiste nel personaggio. Per il fatto stesso di essere un automa il Golem non gode di una vita propria, agisce per conto terzi, e se giunge ad una liberazione (la ribellione verso il creatore che cos’è se non un tentativo di liberarsi dal giogo della sudditanza, che è poi proprio il messaggio veicolato in maniera più chiara e definitiva dalla successiva rilettura di Duvivier?) lo fa unicamente in funzione di una fatalità, una specie di predestinazione che gli  incombe addosso come una condanna.

E se pensiamo che il peso di questa condanna, di questo rifiutarsi all’umanità, restandone comunque partecipe, diventerà proprio uno dei segni distintivi dell’espressionismo cinematografico, si dovrà convenire allora che – a parte certe evidenti ingenuità e sfasature tecniche – il contributo e l’importanza del lavoro di Wegener è stato tutt’altro che secondario e subordinato, visto che il film  non attenua minimamente il pessimismo di una visione così radicale e vede nel Golem  chi privilegia l’azione senza preoccuparsi degli esiti a cui condurranno, e che forse non riesce nemmeno a valutare, arrivando conseguentemente ad eseguire la parte assegnatagli con feroce rigore, persino (forse) contro la propria volontà.

Il Golem, al pari del contemporaneo e similare Homunculus, è dunque un personaggio le cui caratteristiche anormali sono presentate come il risultato inevitabile di “anormali origini”. Ma il postulato di tali origini è in realtà un sotterfugio poetico che razionalizza il fatto, apparentemente inspiegabile, che questi eroi (o presunti tali) sono o si sentono diversi dai propri simili.

Figure che vivono tragicamente la loro “disumanità” facendola diventare un disadattamento esistenziale, tale è la modalità  con la quale Wegener  interpreta sullo schermo la figura della statua che cammina, un’immagine che ha avuto influenza determinante anche sul Frankenstein di James Whale del 1931, che chiarirà questo concetto rendendolo del tutto palese.

L’ espressionismo  cinematografico

Per concludere, si può affermare che senza dubbio il “ calligarismo”  ha avuto un’importanza fondamentale per lo studio dell’espressionismo  cinematografico e ha determinato la sua strabiliante affermazione, ma adesso si può anche dire che non è certamente il solo riferimento primario della corrente, neppure sotto il profilo strettamente scenografico..

E questo soprattutto nell’ottica aggiornata di una revisione critica a posteriori che analizzi tutte le componenti dinamiche e contenutistiche di quelle opere che continuano a lasciare impronte, non solo “citazioniste”, anche nel presente. La sua influenza è un segno indelebile e riconoscibilissimo nella storia del Cinema, e l’affascinante rete suggestionale delle sue valenze oniriche prende nuova forma e consistenza affacciandosi ben oltre gli immediati riferimenti successivi al 1933.

A tale proposito ricordiamo i nomi di Billy Wilder, Robert Siodmak, Fritz Lang del periodo americano, Orson Welles stesso, e ancora oggi l’elenco sarebbe molto lungo, tante sono le suggestioni e i riferimenti operanti anche nel cinema contemporaneo.

Il Golem

Titolo originale: Der Golem

Germania 1920 durata 73’

Regia di Paul Wegener

Con Paul Wegener, Albert Steinrück, Lyda Salonova, Ernst Deutsch

 

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