Lazzaro felice di Alice Rohrwacher

Di solito si parla di occasione mancata quando un film non convince, con questo dicendo che sì, un qualche talento traspare, l’invenzione narrativa non è del tutto assente, molto in fondo qualche bagliore di geniaccio c’è, ma … ma … insomma non convince.

Cerchiamo allora di capire cos’è che non va, perché a Cannes è andata così bene (premio alla sceneggiatura), cosa alimenta il coro critico quasi (per fortuna esiste il “quasi”) tutto schierato a favore.

Un nome di famiglia tanto celebre quanto esoticamente impronunciabile che a Cannes non va senza tornare regolarmente con qualche premio suscita attenzione in più, non basta neppure che sia stata la stessa regista, col vezzo del vis grata puellae, a dire che la sceneggiatura è bislacca.

No, il premio lo danno proprio a quella sceneggiatura, lasciando al gramo spettatore più di due ore di domande inevase su chi, come, perché e quando.

Cosa fare in questi casi per puntellare la baracca che crolla? Si ricorre a citazioni, a precedenti celebri, a somiglianze fatali.

Piccolo elenco: San Francesco d’Assisi, Olmi, Pasolini, Citti, Voltaire e Dostojevskij.

Notevole, e allora aggiungiamo Kurosawa, ma per opposizione.

Ma, per non confondere anche noi i nostri venticinque lettori, facciamo precedere un po’ di sinossi (se è possibile, vista la confusione, e tentando di non anticipare o svelare finali e svolte narrative, basta il film).

Sinossi

 Atto primo: un podere agricolo in qualche imprecisato posto dell’Italia centrale, l’Inviolata.

Tale marchesa De Luna (Simonetta Braschi, il personaggio più improbabile fra i tanti improbabili), produce sigarette (e già basterebbe) e finanzia l’azienda con il lavoro schiavile di una famiglia allargata di mezzadri che non hanno la più pallida idea di essere entrati da qualche secolo nella modernità.Quando, per una serie di circostanze, questo gap sarà colmato entreremo nell’atto secondo, trent’anni dopo.

Se a qualcuno interessa cosa avverrà fino al finale resti seduto in poltrona, sappia però che la seconda parte è peggiore della prima, a detta anche della critica osannante che, pure, non può ignorare l’evidenza.

E Lazzaro felice?

Appunto lui, un Adriano Tardioli (nomen omen?) che è qualcosa tra un Santo, un minus habens, lo scemo del paese (ma non c’è un paese), il poverello di Dio, un Lazzaro risorto che fa sentire tutti tanto cattivi perché il solo, vero buono è lui, che non capisce niente.

Lazzaro è felice, e non c’è altro che valga la pena di dire.

Ma torniamo per un attimo a Kurosawa lasciando da parte altre citazioni celebri (e fuori luogo).

L’idiota, un film del 1951.

Direte: altri tempi. Certo, decisamente più seri.

A Kurosawa non servirono funambolismi narrativi, nessuno usò per il suo capolavoro la formula oggi così cara di “realismo magico”, il regista provvide con didascalia iniziale a spiegarci le ragioni dell’opera e poi andò avanti con la chiarezza e la scorrevolezza che mai mancarono all’Imperatore del cinema.

Dostoevskij voleva ritrarre un uomo intrinsecamente buono. Paradossalmente scelse come eroe un idiota. Ma un uomo veramente buono può apparire come un idiota agli altri. Questa è la tragica storia della rovina di un uomo puro e semplice.”

Altri tempi, altro cinema.

Lazzaro felice

Italia 2018 durata 125’

regia Alice Rohrwacher

con Adriano Tardioli, Alba Rohrwacher, Tommaso Ragno, Luca Chikovani, Agnese Graziani, Sergi López, Natalino Balasso, Nicoletta Braschi

 

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