La Morte e la Fanciulla nei linguaggi dell’arte

Esplorazione della Morte da visione terrificante a promessa di pace eterna, La Morte e la Fanciulla è motivo iconografico di origine rinascimentale, tema narrativo e poetico della cultura romantica, presente in pittura come presagio di una catastrofe epocale incombente (Egon Schiele) in musica (Franz Schubert) teatro (Adolf Dorfman) poesia (Matthias Claudius) e infine cinema, colonna musicale di raggelante suggestione nel dubbio fra giustizia e vendetta (Roman Polanski).

  1. Il film di Roman Polanski
  2. Il Quartetto per archi n. 14 in re minore D810 di Franz Schubert
  3. L’esecuzione del Quartetto Arturo Martini

1. Il FilmDal dramma del cileno Ariel Dorfman, il film è un cupo quadro espressionista che annulla lo spazio esterno pur rappresentandolo con realismo documentario.

La scogliera, il lungo tratto di costa fuori dallo chalet dove si svolge l’azione, la silenziosa massa nera dell’oceano sullo sfondo, l’imperversare della pioggia, il lungo nastro stradale dove, nel buio della notte, si accendono per due volte i fari di un’automobile che si avvicina, sono proiezioni dell’animo dei protagonisti più che fenomeniche apparizioni del mondo che li contiene.

Il focus dell’azione è lo spazio angusto di una stanza dove la luce torna, incandescente, dopo il black out iniziale. Al centro un uomo fatto prigioniero, legato alla sedia, è in attesa del suo destino.

L’aria intorno è pregna di fantasmi, ectoplasmi di un passato che affiora nelle parole, scene di violenza mai rimossa tornano a vivere, una danza macabra diretta da Paulina, vittima un tempo e oggi carnefice, domina la scena.

Definito “dramma da camera” (Mereghetti) il film dichiara fin dal titolo la corrispondenza con il celebre quartetto di Schubert e il Lied del secondo movimento, il duello fra la Morte e la Fanciulla.

Ma se nel Lied i ruoli sono netti e ben definiti, l’elaborazione formale di Polanski, che introduce varianti anche al testo di Dorfman, lascia spazi aperti e margini rarefatti. In fuoriuscita libera dai propri confini, lo smarrimento dei personaggi è il suo segno distintivo, nella composizione circolare è la sua cifra dominante, l’ambiguità. Il motivo politico aggancia i temi cult del regista, interscambiabilità dei ruoli, eros e thanatos in connubio inestricabile, determinismo della condizione umana, ma anche altre corrispondenze emergono, e l’immagine speculare più diretta evocata dallo scontro tra Paulina e il dottor Miranda è la scarnificata esposizione dei due corpi nel dipinto di Egon Schiele.

Egon Schiele, La morte e la fanciulla,  1915

Si pensa allo studio Al di là del principio del piacere, dove Freud fa il punto sulla concezione della coazione a ripetere, cioè la tendenza che hanno gli individui nevrotici a ripetere situazioni dolorose e violente vissute in passato, al di là del principio del piacere.

Assunto che il fine di tutte le pulsioni di ogni essere vivente è quello di un ritorno ad uno stato inorganico iniziale, alla fine della vita, alla morte, e che, quindi, vi è contraddizione fra pulsioni di autoconservazione e pulsioni di distruzione, Freud precisa come nella vita dell’organismo umano “…un gruppo di pulsioni si precipita in avanti per raggiungere il fine ultimo della vita il più presto possibile, l’altro gruppo, giunto ad un certo  stadio di questo percorso, ritorna indietro per farlo nuovamente a partire da un determinato punto e prolungare così la durata del cammino”.

Convergono dunque più voci nel sottile gioco al massacro creato da Polanski, che apre e chiude in una sala da concerto dove il Quartetto Amadeus esegue il Quartetto per archi n. 14 in re minore D810 di Schubert. I tre protagonisti sono presenti in una sorta di immobilità nevrotica che implode su sé stessa, vite per cui l’intreccio fra vita e morte ha perso energia, divenendo astrazione filosofica, inflessibile teorema di una condizione umana immodificabile, in una parola, Morte.

 Sinossi

Paulina Lorca (Sigourney Wiever) e il marito Gerardo Escobar (Stuart Wilson) vivono in una casa sul mare isolata, in un paese non precisato del Sud America.

Lei è sola e aspetta il ritorno di Gerardo che le comunicherà di aver accettato l’incarico di dirigere una commissione d’indagine sulle violazioni dei diritti umani negli anni della dittatura. La notizia viene accolta con evidente nervosismo dalla moglie, benchè siano trascorsi anni, per lei è una ferita ancora viva e la reattività a qualunque cosa le ricordi il passato è fuori controllo.

Questa sua esposizione emotiva alterata fa sì che l’arrivo del terzo protagonista, il dottor Miranda (Ben Kingsley) faccia saltare la miccia.

La voce di lui, la musicassetta trovata nella sua auto, a Paulina non serve altro, è lui il torturatore che la stuprò a lungo su quel letto di contenzione durante la sua prigionia al suono del Quartetto di Schubert.

La tensione drammatica ha un picco immediato, anticipato dai segnali premonitori del black out e dal nervosismo di Paulina scaricato sul marito.

Il nuovo arrivato ha dato un passaggio a Gerardo che aveva bucato una gomma nella notte nera e ora è lì, sull’uscio, con la ruota di scorta che l’altro ha dimenticato nella sua auto.Uno strano ritorno che lui giustifica con l’insonnia, la maestria del regista fa nascere dal nulla atmosfere da incubo, un fermo immagine, un silenzio di qualche secondo, una porta che sbatte.

Il terrore si fa strada e il cinema della crudeltà di cui Polanski è maestro indiscusso comincia.

Paulina vede lo sconosciuto, al tempo del suo martirio nelle mani degli aguzzini di regime non aveva mai visto il suo carnefice, legata e bendata nel letto di tortura dove era stata violentata anche con scosse elettriche in vagina.

Eppure ora è sicura che sia lui il medico che la stuprò, è sua la voce, la riconosce senza mezzi termini, si è incastonata nella sua memoria. Indizi, non prove, assolutamente nessuna certezza, l’ambiguità del gioco è totale. Lei riesce a farlo prigioniero, lui dichiara disperatamente la sua innocenza, il marito recita una parte difficile, incapace di credere a uno dei due, eppure emotivamente coinvolto fino in fondo.

È vendetta o giustizia quella di Paulina Lorca che umilia per ore Miranda e sta per buttarlo giù dalla scogliera?

E perché alla fine lo lascia vivo sull’orlo del baratro? Un ritorno di umanità? Una forma tardiva di pietas? Un dubbio?

E Miranda è veramente vittima di un tragico fraintendimento o è davvero lui il mostro che Paulina riconosce dalla voce?

Il personaggio è ambiguo, Polanski riesce a renderlo innocente o colpevole a fasi alterne, tesse intorno ai suoi personaggi una tela sottilissima in cui verità e menzogna perdono ogni confine.

Quella di Paulina è alterazione della realtà dovuta alla sua mente sconvolta o lucida capacità di capire più a fondo il reale, al di là delle apparenze, proprio per le sofferenze subite?

E può un innocente, costretto dalla tortura che Paulina gli infligge, accettare di dire quello che dice Miranda?

Paulina: Guardami. (Paulina prende il viso del dottor Miranda fra le mani) C’è abbastanza luce, mi riconosci? Davvero non mi riconosci? Non mi hai descritto i tuoi desideri osceni, non mi hai confidato i tuoi segreti?

Dottor Miranda: .

Paulina: Non mi hai stuprata? Non hai goduto dentro di me? Dottor Miranda: Sì.

Paulina: Quante volte?

Dottor Miranda: Molte volte. Ti ho violentato molte volte. Quattordici volte.

Paulina: E mettevi la musica?

Dottor Miranda: Sì, mettevo la musica. Ti volevo tranquillizzare. Mi sono comportato bene all’inizio. Ho lottato duramente per non cedere. Nessuno ha lottato quanto me, sai? Io sono stato l’ultimo. Ho resistito fino all’ultimo. E non ho ucciso nessuno, giuro. E ne ho salvati molti. Non avete idea di quanti ne ho salvati. Cominciai così, fui contattato per questo. Cercavano un dottore, mio fratello era nella polizia segreta. Mi disse che avevano bisogno di medici per evitare i decessi. Io ti ho lavata, eri lurida di escrementi. Mi hai detto: “Puliscimi” e io ti ho lavata. Gli altri mi incitavano: “Avanti, dottore, non rifiuterai una bella scopata gratis?”. Io vacillavo, ero interdetto. Sentivo però che la cosa… cominciava a piacermi. Le lasciavano lì sdraiate… carne sul tavolo… alla luce dei neon. Tu non lo sai, ma quelle stanze erano luminose. Donne che giacevano del tutto inermi. Non dovevo essere carino, non dovevo sedurle, capisci? (Breve pausa) Non avevo nessun tipo di obbligo nei loro confronti. Erano in mio potere, potevo violarle tutte. Dovevano fare e dire quello che volevo. Ero perduto. Ero … curioso. Era morbosa la mia curiosità. Quanto può sopportare una donna? Cosa succede alla sua vagina dopo una scarica di corrente? Può avere un orgasmo dopo le torture? Oh Dio. Godevo a stare nudo… mi spogliavo con lentezza… facevo cadere i pantaloni a terra… perché tu lo capissi dal suono. Volevo che sapessi cosa stavo per farti. Ero tutto nudo in piena luce e tu non potevi vedermi… non potevi darmi ordini. Eri mia, vi possedevo tutte! Diventò una droga… potevo farti male o scoparti. E tu non potevi dirmi di no. Dovevi ringraziarmi… eh! Mi piaceva. Peccato che sia finita. È un vero peccato che sia finita.

Forse sì, un innocente può farlo, può dire quello che vuole il carnefice, per paura, per debolezza, perché spera di salvarsi.

O forse, al contrario, c’è un momento in cui la verità riesce ad emergere.

Ma siamo disposti a crederlo?

Polanski ci lascia soli con questa domanda.

USA, Francia, Gran Bretagna 1995 durata 103 min.

titolo originale Death and the Maiden

regia di Roman Polanski.

con Sigourney Weaver, Ben Kingsley, Stuart Wilson, Krystia Mova, Jonathan Vega.

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2. Franz Schubert, un Lied e un Quartetto

Enigmatica per l’intelletto, chiara al sentimento, la voce del Lied risuona dalle misteriose profondità dello spirito e della poesia”.

F.von Schlegel

Nel 1817, in linea con le nuove idee romantiche, Schubert compose il Lied “Der Tod und Das Mädchen” (“La Morte e la Fanciulla”) utilizzando versi del poeta Matthias Claudius.

Nel 1824 scrisse il Quartetto per archi n. 14 in re minore D810 e inserì nel secondo movimento il celebre tema del Lied. Pubblicato postumo nel 1831, il quartetto fu composto quando la vicinanza della morte era ormai una certezza e Schubert lo dedicò alla Morte, “comune amica”.

Così scriveva infatti il 31 Marzo di quell’anno all’amico Leopold Kupelwieser:

“Pensa a un uomo la cui salute non potrà più ripristinarsi e che per pura disperazione rende le cose peggiori invece che migliori. Pensa, intendo, a un uomo le cui più luminose speranze sono diventate nulla, per cui amore e amicizia sono diventate una tortura, e di cui l’entusiasmo per la bellezza sta velocemente sparendo; e chiediti se un uomo così non è davvero infelice.”

Colpisce nell’ascolto del Quartetto D810 la grande bellezza dei temi espressi in un fraseggio complesso, duro, simbolico.

Le “divine lunghezze” del grande musicista si strutturano in forma narrativa ponendo il Lied come asse centrale, avvolto da suggestioni sinfoniche e cameristiche. La tonalità minore, interrotta solo dal luminoso maggiore del Trio, conferisce senso di inevitabilità vanificando le sezioni consolatorie del secondo movimento.Il movimento iniziale è un allegro in re minore che contrappone al primo tema, cupo e inesorabile, un secondo tema di carattere più tenero e cantabile, quasi un sussulto vitale prima dell’agghiacciante incombenza della Morte che vincerà la partita.

Il tema del Lied è la base dell’intero secondo movimento, Andante con moto, cinque variazioni e una coda, sviluppato in una serie di splendidi passaggi che dalla disperata resistenza della Fanciulla giungeranno alla rassegnata consapevolezza dell’impossibilità di sottrarsi al proprio destino.

Nel Lied il terrore della Fanciulla contrasta con la compostezza glaciale e a tratti seducente della Morte, il solenne ritmo dattilico delle sue parole assorbe, vanificandolo, l’urlo della Fanciulla:

La Fanciulla:Via, ah, sparisci! / Vattene, barbaro scheletro! / Io sono ancora giovane; va’, caro!  / E non mi toccare.

La Morte:Dammi la tua mano, / bella creatura delicata! / Sono un’amica, / non vengo per punirti. / Su, coraggio! / Non sono cattiva. / Dolcemente dormirai fra le mie braccia!

Le cinque variazioni del secondo tempo sono scene di un teatro drammatico in cui si affrontano i due protagonisti e la Morte domina austera e tranquilla nel suono grave del violoncello.

I movimenti melodici e ritmici del violino nella prima variazione esprimono lo spavento e il tentativo di fuga della fanciulla, un’angoscia che si accentua nella seconda variazione dove il violino prosegue frammentato preparando la tempesta successiva, dove c’è l’apice del terrore e la Fanciulla, sorda alle melliflue argomentazioni della Morte (dal Lied “Sono un’amica, / non vengo per punirti”) non si calma.

Ma la Morte ha fretta, è impaziente, vuole la Fanciulla nel pieno della sua giovinezza, non può lasciare che la sua bellezza sfiorisca ritardando il suo destino.

Ora la scena è dominata dal caos e al violoncello, che insiste inflessibile con il suo tema, si sommano la viola e il secondo violino con percorsi diversi e ritmi spesso sincopati. La rabbia della Morte è palpabile e si placherà quando il doloroso “solo” del primo violino segnerà la resa della Fanciulla, impotente di fronte alla sinistra “Dama nera”, immagine potentemente evocata nella forma che l’iconografia medievale ha consegnato all’immaginario, il fantasma dissanguato de Il settimo sigillo di Ingmar Bergman.

Il Presto conclusivo è dominato in tutta la sua durata da un ritmo di velocissima e spettrale tarantella, quasi una danza macabra vigorosamente dinamica e ricca di colori, definita da Einstein la tarantella della morte, in una combinazione di rondò e di forma sonata”.

 Teatro tragico in cui Vita e Morte si battono in un duello estremo, le variazioni del secondo movimento, i bruschi passaggi di tonalità, le pause riflessive, i ritmi che sottolineano il turbamento dell’animo, trovano però nel violoncello l’espressione della sublime ambiguità schubertiana, dolorosa ma anche consolatoria  voce di una madre trascendentale (Pietro Fabris)

Diventerà dunque la Morte un antidoto alla dolorosa realtà della vita, desiderio e trasfigurazione? Finale aperto a interpretazioni contrastanti: salvezza, redenzione e pace, approdo di straordinaria purezza lirica nella forza redentrice della musica o doloroso precipitare nel Nulla eterno?

Certo pathos, celebrazione della musica come creazione di un mondo altro:

La musica non è dunque, come le altre arti, una riproduzione delle idee, ma è una riproduzione della volontà stessa, una sua raffigurazione al pari delle idee. Perciò il suo effetto è più penetrante di quello di altre arti: quelle ci parlano dell’ombra, questa dell’essenza”.

A. Schopenauer

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3. L’esecuzione del Quartetto Arturo Martini

Walter Vestidello

a cura di Piero Fabris

Per l’annuale rassegna della Università Popolare Auser il quartetto “Arturo Martini” il 12 maggio 2019, nella chiesa del San Gregorio in Treviso, ha interpretato “La morte e la fanciulla”, il quartetto D 810 di Franz Schubert.

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Nella purissima acustica dell’antica chiesa di San Gregorio, che nulla toglie e nulla aggiunge di artificioso alla “verità” strumentale degli esecutori, abbiamo ascoltato una originale e inedita interpretazione del celebre quartetto. Contrariamente a quanto viene praticato dai più celebrati quartetti europei e americani, i quattro strumenti ad arco erano “montati” secondo la prassi dell’epoca (1824), cioè con corde non di metallo ma in budello nudo, e suonati con archetti di adeguata leggerezza e conformazione. La cosa che è ormai consolidata per la musica barocca, viene estesa dal quartetto “Arturo Martini” a tutta la letteratura cameristica dei grandi classici del primo ‘800. A parte la diversa qualità del suono, dovuta al fatto che il legno degli strumenti è più libero di vibrare, quello che musicalmente incide di più è la grande immediatezza e incisività nell’attacco dei suoni. Quando gli archetti si posano su queste corde c’è uno scatto acustico potenzialmente molto più agile, vitale e dinamico. E con una gamma tra leggerezza e aggressività molto più ampia.

Gianpiero Zanocco, Francesca Bonomo, Alessandro Dalla Libera e Walter Vestidello, hanno sfruttato al meglio queste opportunità, liberando il discorso musicale da ogni condizionamento o limite strumentale e lasciandolo fluire nella sua pura necessità spirituale, andando diretti all’essenziale della forma altamente drammatica della composizione. Come si sa, la forma musicale è totalmente immersa nel flusso temporale, e la maggior cura della interpretazione è proprio quella di cogliere gli “andamenti” che meglio colgano la “verità” del pensiero musicale. Nel nostro caso, l’incalzare degli eventi musicali, così stringente in questa narrazione schubertiana, è limpidamente emerso in tutta la sua tensione, la sua accoratezza, la sua implacabile dialettica tra vitalità e destino. E se vitalità e destino dominano il primo tempo, nel famoso Andante il violoncello ha nitidamente reso una terza voce, quella di una madre trascendentale che si fa carico, con accorata empatia, del tragico della morte.   Così come, nel tempo finale, i quattro archi hanno efficacemente reso la turbinosa e frenetica rincorsa ritmica, vivendola come espressione di vitalità e “potenza” di esistere, contendendo al flusso inesorabile del tempo e del destino gli spazi vitali per l’affermazione del sé. Ne è risultata una esplosione fonica e ritmica   travolgente ed entusiasmante per ogni pubblico, malgrado queste note abbiano quasi 200 anni di vita.

 

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