Achille e la tartaruga

 

La presentazione del secondo paradosso di Zenone in stile anime dà inizio ad Akiresu to kame: il piè veloce Achille non può superare la lenta tartaruga partita prima di lui, le contraddizioni logiche nel tentativo di spiegare la presenza del movimento nella realtà conducono la ragione a rifiutare l’esperienza sensibile e ad affermare che la realtà è immobile.


Su questa premessa Kitano dà il via ad una storia, un falso biopic, una vera allegoria, in quattro parti, che parla di Machisu, il piccolo che sognava di fare il pittore e, divenuto vecchio, capisce che l’arte non esiste.


Infanzia protetta nella ricca famiglia del padre industriale, triste orphanage  dopo la drammatica morte del genitore e vita di maltrattamenti presso il rude zio, maturità con matrimonio e difficile ma caparbia esperienza nel mondo dell’arte, infine mezza età, con presa d’atto del fallimento come artista e dimostrazione della verità del paradosso di Zenone: la realtà è immobile, Achille sarà sempre indietro rispetto alla tartaruga, perché inseguire un paradosso che ci condanna come perdenti fin dall’inizio?

Il paradosso è l’arte, che è mimesi della mimesi di una realtà che noi, prigionieri della caverna, scambiamo per verità.


Che è come dire che l’arte non esiste (o non è credibile) e la verità è inattingibile, e allora un calcio anche a quel barattolo ammaccato di Campbell giapponese alla Andy Warhol esposto sul banchetto del mercato per 200.000 yen e via, sottobraccio alla mogliettina fedele, si riprende  il chapliniano cammino della speranza, magari avvolti dalla testa ai piedi di bende dopo il rituale falò purificatorio e un solo occhio libero.

Ma può bastare.


Le vicende del bambino e poi del giovane adulto occupano la prima parte del film, quella narrativa, con molti interni, presenza forse troppo invadente del sonoro, ritmo lento e colori cupi, atmosfere alla Zatoichi e alla Dolls, ma come stanche, quasi messaggi cui resta poco da comunicare.


Poi l’urgenza espressiva riprende il sopravvento, nella seconda parte, dove è Kitano a recitare il terzo sé stesso, dopo il regista di Takeshis’ e il comico tv di Glory to the Filmmaker, ed è il pittore.


Ironia e amarezza impregnano questo racconto duro, a tratti doloroso, di una vita spesa ad inseguire la tartaruga. 
Ironia surreale e macchiettistica, Kitano conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, il suo stile unico.


Nulla si salva, a partire da sé stesso (ma di questo seppuku rituale aveva fatto partecipi le masse nei primi due film del trittico).


Ora tocca all’arte, quell’ultimo, effimero, presuntuoso baluardo dell’uomo che s’illude di essere il centro dell’Universo.


Nell’intervista rilasciata a Venezia Kitano ha ricordato ai giornalisti che i suoi quadri, di cui il film è pieno, sono campioni senza valore, infatti ne brucia un bel po’ in quel bidone:

Mi piacciono l’arte e i quadri e ho scelto per questo un pittore come protagonista di questa storia. I quadri presenti nel film sono tutte opere mie, quindi non sono affatto belli e non hanno alcun valore economico. Ho voluto utilizzare cose che ho dipinto io perché pensavo fosse più interessante e perché così rientravo in un budget basso. Volevo inoltre dimostrare che non serve avere successo come pittore, l’importante è che uno faccia quello che gli piace fare. In questo film ho voluto parlare della crudeltà dell’arte. Per il mio personaggio l’arte è una droga e per sentirsi realmente un artista ha bisogno di confrontarsi anche con la morte, ma questo non è affatto necessario affinché un artista sia tale.


E aggiunge: “Quando ho cominciato a fare questo lavoro ero interessato ad avere successo economico e delle buone critiche e ho quindi fatto di tutto per diventare un bravo regista. Ora invece mi trovo a un punto in cui mi sento semplicemente fortunato a fare quello che faccio. In Giappone i miei film non hanno successo, ma la mia casa di produzione non è certo sull’orlo del fallimento e se continuo a girare film significa che qualcosa riesco pur sempre a guadagnare anche lì ”.


Ecco come parla chi, al contrario, sta facendo una dichiarazione d’amore totale per l’arte e invita a esprimere sé stessi al di là dei giudizi altrui.


Quel basco alla Picasso lo porterà per una vita intera, non sappiamo se sia finito nel falò, nell’ultima scena non lo porta, ma sopra le bende era davvero impossibile metterlo.

titolo originale: Akiresu to kame

Giappone, 2010 durata 130’

di Takeshi Kitano, con Takeshi Kitano, Jun Kunimura, Ryo Kase, Renji Ishibashi, Kippei Shiina, Takashi Tsukamoto, Tetta Sugimoto, Fumiyo Kohinata, Tomokazu Miura, Sôichirô Kitamura

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