Takeshis’di Kitano Takeshi

Kitano racconta sè stesso, con ironia, con amarezza, con gusto, spiazzando tutti, soprattutto la critica, anche quella filokitaniana che “si stringe le spalle”.

Il film ha fatto parlare di operazione alla 8 ½, senza però la magia di Fellini, con troppi difetti di montaggio, mancanza di un’ idea forte di base, incompiutezza di fondo, ripetitività di scene, effetto spiazzante e caotico che l’elemento visionario provoca nello spettatore.

Tutto questo mentre però se ne sottolineano il connotato farsesco e la felice vena parodistica (il mondo dello star sistem ne esce infatti piuttosto male) stilemi di un linguaggio inconfondibile, che mentre si ripropone cerca nuove strade per esprimersi ma, soprattutto, nuove risposte a domande urgenti di fondo: continuare? e come? e che senso ha?

Lo straniamento sembra quello che il regista vuol ottenere.

Anche se non siamo dalle parti di Sonatine o di altri suoi capolavori, l’operazione messa in campo (parlare a sè stesso più che di sè stesso) è importante per chiunque si occupi del percorso ormai ventennale di Kitano nel cinema con un interesse non episodico.

Certo è un film in parte da decrittare, va visto dopo aver fatto un buon tirocinio sulla filmografia di Beat Takeshi, per cogliere con giusto rilievo rimandi e sfumature, codici espressivi e metalinguistici e, in definitiva, la genesi di una poetica che si evolve, cerca nuove strade, si interroga e si scopre.

Il tema del “doppio” è il filo conduttore: il regista ricco e arrivato di gangsters movies ad alto tasso di violenza e inattendibilità (“non esistono yakuza come quelli” è una delle prime battute, “rilassati, è solo un film!” la risposta), annoiato e spocchioso, con venature di sufficienza e paternalismo tipiche degli uomini di successo che si concedono all’umile volgo, incontra il suo alter ego, un sosia sfigato con capelli gialli ossigenati e faccia da crisantemo, una specie di clown così triste che di più non si può, che passa da un’audizione all’altra senza riuscire mai a trovare ingaggi.

Il calvario surreale e insieme patetico è costruito con montaggio rapido che allinea immagini reali e subliminali, sovverte ogni ordine logico con flashback e salti spazio-temporali continui, allinea autocitazioni e gag nel più puro “stile Kitano”.

C’è lo yakuza che uccide da solo tutti quanti con una pioggia di fuoco degna della guerra del Golfo, la spaghetteria dove maltrattano solo lui e gentilissimi con gli altri, il provino con il bottone del camice che non si apre e l’audizione che salta, i gemelli “300 chili” , ora in chiave sumo ora con sgargianti baby doll, la donna con la faccia da moglie rompiballe che lo perseguita senza sapere perché, la ragazzina fan che lo aspetta col regalo e, a mò di marionetta, scambiandolo con quello vero, ad ogni passaggio ripete “grazie Mr. Kitano per il suo lavoro!” .

Per un po’ il film procede su binari paralleli,  scene di vita sul set del regista famoso e  giri a vuoto dell’alter ego sfigato, poi prende il sopravvento fino all’esplosione finale l’ira repressa del debole, ira biblica e tremenda del patetico clown che farà strage intorno a sè andando in giro con un piccolo arsenale di armi in un borsone da viaggio.

C’è il mare, come sempre in Kitano, ma i sogni hanno strane traiettorie e sulla spiaggia incantata dove volteggia leggera la fanciulla con l’abito blu, si scatena improvvisa una delle sparatorie più micidiali di Kitano, stavolta anche con truppe militarizzate (e, naturalmente, i due gemelli sumo)

Infine si conclude che il sosia non può convivere con l’originale, la dedica che il regista famoso gli ha lasciato, “A mr. clown”,  tra risatine e ammiccamenti alla segretaria, è stata un’offesa troppo grande.

La rabbia derivata è fredda e controllata, il viso inespressivo del biondo mentre aspetta il sosia davanti all’ascensore e tira fuori il pugnale porta la tensione al culmine… ma poi, replay, siamo al cinema, il regista è disteso sul lettino mentre gli fanno un variopinto tatuaggio sulla schiena. Soffre per le punture, si gira verso la macchina, apre l’occhio sinistro e la cornice si chiude.

C’è infatti una cornice che racchiude tutto questo materiale caotico e rutilante, e sono due scene, quella iniziale e quella finale, una perfetta incursione nel realismo fatto di colori, costumi e atmosfere alla war movie in perfetto stile hollywoodiano. C’è appena stato un combattimento tra giapponesi e americani, siamo in un interno diroccato, cadaveri, polvere, fango e vetri rotti dappertutto.

Kitano a terra si finge morto sotto l’elmetto che lo rende quasi irriconoscibile. Un soldato, faccia molto americana, lo scopre, i due sguardi s’incrociano, il fucile viene puntato e, stando a quel che racconta il regista, si tratta del suo incubo ricorrente da bambino.

Sequenza finale, il soldato spara e un attimo dopo sparano gli yakuza del film, e il gran spettacolo del Circo/Cinema ricomincia.

“Non c’è alcun significato in questo mio film. Non andate a cercare un senso dove non c’è. Volevo solo divertirmi e far divertire il pubblico. Questo film potrebbe essere il punto finale di certe mie opere. Sento di aver finito di abitare una vita e di essere sul punto di iniziarne un’altra”.

Così dichiarava Kitano a Venezia dove il film era in concorso. Dunque un metaKitano, un artista che, in una pausa di riflessione, si prende gioco di sè e, se ride, lo fa come ogni bravo clown che si rispetti, facendo divertire il pubblico e sparando dal suo cannone solo bolle di sapone. La vita vera è tutta sotto la maschera.

Takeshi’s

Giappone, 2005, durata 108’

di Takeshi Kitano, con Takeshi Kitano, Kotomi Kyono, Kayoko Kishimoto, Ren Osugi

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