La sfida del Samurai di Kurosawa Akira

Nell’era Tokugawa (1603/1868) in Giappone la vita di un samurai non è più quella di una volta.

Tramontato il tempo dei “signori della guerra”, all’epica eroica del XVI secolo, con gli spavaldi e generosi Sette samurai che spazzano via i briganti dal villaggio per onorare con fierezza l’etica bushido[1], alle sontuose scenografie delle corrusche vicende del jidai geki[2] tradizionale di Kagemusha, Ran o Il trono di sangue, subentra ora lo sporco villaggio Manome, tenuto in ostaggio da bande rivali di mercanti e mercenari della peggior risma, feccia mafiosa che tra pioggia, polvere, incendi e sabotaggi (il saké che esce a fiotti dalle botti crivellate di Tokuemon scatena un putiferio surreale) seminano il terrore fra gli abitanti, asserragliati a sbirciare dietro le porte chiuse, mentre un cane trotterella lungo il corso principale con una mano umana fra i denti, lugubre trofeo strappato a cadaveri disseminati qua e là.

Non mancano neppure faccendieri procacciatori d’affari, (“signor samurai, se vuoi lavorare c’è questo e c’è quello,e per me una moneta d’oro, e non te lo scordare), case da gioco e di piacere, battute inneggianti alla vita facile e piena di soldi, insomma scenari da capitalismo ante litteram in piena regola.

Il samurai in arrivo stavolta è Sanjuro, un “nessuno”, un ronin (appellativo dei senza padrone e senza radici), in cerca di ingaggio come guardia del corpo del miglior offerente. Poche parole, cinico e sprezzante (“Uccidere è un commercio molto redditizio qui”), armato della invincibile katana[3] capace di spezzare in due un uomo, soffia sul fuoco della guerra civile per ricavarne maggiori vantaggi per sé. Si muove con cipiglio sicuro fra bande armate, semina lo scompiglio e assiste divertito dalla torre campanaria allo sgozzarsi reciproco nella piazza sottostante, patteggia compensi stratosferici, salvo poi passare a chi offre di più.

Eppure, questo machiavellico super/eroe, a cui Mifune Toshiro  dà magnifica prestanza, agilità e ironia, non è immune da spinte umanitarie, e quel “pugno di yen” lo lascerà alla disgraziata famigliola che salverà da sicura rovina, rischiando così la pelle in un pestaggio memorabile dal quale risorgerà però al momento giusto (“mi basta dormire tre giorni per risorgere”) e riapparirà, tra nuvole di foglie e polvere, in una sequenza finale indimenticabile, in fondo alla strada, spaventoso vendicatore che farà strage dei nemici.

La pistola di Unosuke puntata contro di lui, che sembra non vederla neppure, è un giocattolo ridicolo di fronte al roteare della katana, lo sberleffo più riuscito in un film che gioca con gusto sul pedale della parodia al genere western.

Samurai, ti aspetto all’entrata dell’inferno” soffia l’uomo con la pistola, morendo.

“Quest’uomo ha dimostrato la sua perfida natura anche in punto di morte” è il commento sprezzante del samurai.

La distanza di Sanjuro dal pistolero Jo di Sergio Leone non poteva essere più marcata e l’apocalisse conclusiva, tra morti e distruzioni, cancella in un sol colpo il sospetto di finali edificanti all’insegna del “…e vissero tutti felici e contenti”, con l’eroe di turno che riporta la giustizia secondo il cliché hollywoodiano pre-Yoimbo.

Sanjuro, individualista indifferente, si stringe le spalle commentando sardonico: “ Così anche qui finalmente ci sarà pace” e si allontana verso altre imprese.

Sintesi di generi, film di samurai in chiave western, La sfida del Samurai svetta molto oltre le tradizionali classificazioni, mescolando gli stilemi del noir, del western all’americana e dello jidai geki con abile dosaggio e saldo controllo di mezzi narrativi.

Film d’azione e di meditazione, parodistico e grottesco, violento e muscolare, a tratti delicatamente elegiaco e carico di quella tensione etica che è il segno distintivo di Kurosawa, si colloca tra i primi posti nella filmografia dell’autore.

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[1] Bushido (la via del guerriero): codice di condotta e modo di vita dei guerrieri giapponesi, vicino al concetto europeo di cavalleria,fatto di norme di disciplina militari e morali quali onestà, lealtà, giustizia, pietà, dovere e onore.Il venir meno a questi principi causava il disonore del guerriero e l’espiazione mediante il seppuku, suicidio rituale.

[2] Il genere Jidai Geki narra le vicende di samurai, contadini, fabbri, mercanti del periodo Tokugawa (1603-1867) o dell’epoca Sengoku (1478-1605) ed il termine è spesso accostato al genere “Chambara”, combattimento con le spade.

[3] spada a lama curva e a taglio singolo di lunghezza superiore ai 60 cm usata dai Samurai.

[4] Nel ’64 Sergio Leone girò Per un pugno di dollari, western all’italiana che ricalcava molto da vicino Yojimbo. Ne seguirono dispute legali con Kurosawa e la casa di produzione giapponese Toho, concluse con la vittoria di Kurosawa, ma ormai il successo del film di Leone era diventato inarrestabile, oscurando perfino la fama dell’originale. La fonte originale del film risale a Red Harvest (Piombo e sangue in trad.italiana) di Dashiell Hammet, libro dal quale anche Coppola meditò di affidare a Wenders il compito di trarre un film, progetto poi sfumato. Altre filiazioni di Red Harvest si possono considerare “Ancora vivo ” di Walter Hill con Bruce Willis e “Crocevia della morte” dei Coen . All’origine di tutto c’è, naturalmente, l’”Arlecchino servitore di due padroni” di Goldoni.

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La sfida del Samurai

titolo originale: Yojimbo 

Giappone 1961 durata 110’  b/n

di Kurosawa Akira, con Toshiro Mifune, Eijiri Tono, Kamatari Fujiwara, Tatsuya Nakadai

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