Ran di Kurosawa Akira

Ran è caos. E’ la grande lezione di Kurosawa, che scrive qui il suo testamento spirituale, il caos che gli uomini, folli, creano nella loro vita poiché cercano “il dolore, non la gioia, si esaltano nella sofferenza, si compiacciono dell’assassinio”.

Sono le parole pronunciate dallo scudiero mentre Hidetora muore, consumato dal dolore sul corpo del figlio appena ritrovato, a cui sussurra con un filo di voce “….dovevo dirti tante cose”. L’invettiva contro Buddha e gli dei tutti, urlata un attimo prima dal buffone: “Perché non ci sono né dei né Buddha in questo mondo? Vi annoiate tanto da divertirvi a guardare gli uomini morire come dei vermi?” si trasforma allora in tragica assunzione di umana responsabilità nella risposta del soldato: “Sono loro che piangono, per i delitti che gli uomini commettono per la loro stupidità, perché credono che la loro sopravvivenza dipenda dall’assassinio degli altri ripetuto all’infinito”.

Il principe Hidetora distribuisce le proprie terre ai tre figli Taro (che sarà il capo della casata), Jiro e Saburo (il più amato dal padre).Saburo si oppone alla decisione di Hidetora con una saggia premonizione: tutto sarà ben presto sconvolto dall’odio e dalla sete di potere. Scacciato dal padre adirato, Saburo ripara con Tango, lo scudiero, dal principe di cui sposerà la figlia.

Il vecchio Hidetora capirà ben presto che il giovane aveva ragione. Ospite nel castello di Taro, vorrebbe mantenere il titolo di principe ed una guarnigione di samurai scelti a lui fedeli, ma sarà costretto ad andarsene da Jiro.

Tra i due fratelli si scatenano rivalità, odio e rovina, Taro viene ucciso in battaglia e Jiro si impadronisce dei suoi beni e della vedova Kaede, che odia il vecchio re da quando, in passato, le ha ucciso tutti i familiari.

Hidetora, impazzito, vaga ora senza meta in compagnia di uno scudiero e del fedele buffone, mentre Saburo parte alla sua ricerca.

Nel tragico finale le morti si susseguono a catena: Jiro muore sul campo nello scontro con Saburo, Kaede viene decapitata in una scena di fulminea violenza che tinge la parete di una larga macchia di sangue[1], Saburo cade colpito da una pallottola e sul suo corpo si abbatte morendo il folle padre.

Resta solo un giovane cieco,Tsurumaru, fratello della principessa Suè (prima moglie di Jiro fatta uccidere dal marito) vittima della crudeltà di Hidetora, e si aggira insensato nelle campagne coperte di cadaveri. 

Hidetora, al di là delle ascendenze letterarie che ne fanno per tanti versi il corrispettivo giapponese di Re Lear, è soprattutto una creazione dell’immaginazione di Kurosawa, trasfigurazione leggendaria di Motonari Mori (1497-1571), grande generale e politico a cui successero i tre figli, ottimi governanti sulle orme del padre dopo la sua morte.

La storia di Hidetora in Ran può dunque esser letta come la singolare proiezione in uno scenario possibile, totalmente ribaltato, della realtà storica e lo Shakespeare di Re Lear offre anche il modello per vicende e personaggi messi in scena dentro prospettive decisamente nuove. Pulsioni scatenanti delle azioni sono qui l’ambizione e la vendetta, e travalicano il tema  shakespeariano dell’ingratitudine. Hidetora non è vittima incolpevole, dal suo passato si allungano ombre di morte che ora si presentano al rendiconto finale.

Kaede, donna spietata e determinata fino alla tremenda fine, rievoca i fasti di Lady Macbeth senza, però, la minima traccia di follia. E’ assetata di vendetta contro il grande principe che le decimò la famiglia, le sue arti raffinate tessono la trama dell’odio e Hidetora pagherà tutte le sue colpe per quel gesto di paterna imprudenza di dividere il regno anzitempo (non è forse vero “quod deus vult perdere dementat prius”?).

La vicenda si svolge in un voluminoso crescendo sinfonico, orchestrata con maestria di scelte a partire dai dialoghi che si imprimono nella memoria (uno per tutti “L’uomo perde sempre la strada”a cui si risponde “ Ma prende sempre la stessa”) ai cromatismi che ricordano tavole di El Greco, dalle scene di battaglia con coloratissime distese di stendardi, alla sontuosa bellezza dei costumi (per cui il film ebbe l’Oscar) e poi la naturalezza di tutto l’impianto sonoro (dal calpestio appena percettibile dei cavalli in lontananza alle sonorità lancinanti dei momenti di maggiore violenza, passando attraverso il sottile filo melodico del flauto, talismano che il cieco perde durante la fuga, rimanendo così smarrito e solo, in bilico sugli spalti del castello, col vuoto davanti e l’immagine del Buddha spiegazzata in fondo al burrone).

Potente affresco di un’epoca, quella feudale, Ran si carica di forza allegorica e diventa una tragica meditazione sull’ ingiustizia e sulla sofferenza, infine sul destino dell’uomo che ha smarrito le ragioni dell’amore e della pietà,

Le recupera, a volte, solo sul punto estremo della morte, ma le note profonde di una marcia funebre chiudono lente un sipario pietoso sulle sciagure umane.

________________________

[1] Un ricordo di questa scena di tragica fulmineità, con il getto di sangue che si stampa sulla parete, è nel film del 2007 dei fratelli Taviani, dal romanzo omonimo di Antonia Arslan, “La masseria delle allodole” , quando una macchia di sangue scarlatto compare come premonizione su una porta bianca.

 

RAN

Giappone, 1985 durata 163′

regia di Kurosawa Akira

con Tatsuya Nakadai, Akira Terao, Jinpachi Nezu, Daisuke Ryu  

musiche: Toru Takemitsu

____________________

Le immagini presenti nell’articolo appartengono ai rispettivi proprietari e sono utilizzate al solo scopo di corredare il testo.