Le donne di Mizoguchi Kenji

Dopo Le donne di Kurosawa Akira prosegue l’indagine sulla donna nella filmografia dei maestri che hanno fatto grande il cinema giapponese.

Se in registi come Ozu, Kurosawa, Imamura, Oshima, e, per quanto sembri improponibile, anche in Kitano, guardare al ruolo della donna è sempre interessante, perché é portatrice di significato ed elemento forte per ogni contestualizzazione storica, quando parliamo di Mizoguchi Kenji il discorso sulla donna tocca il punto più alto.

Come ogni cultore di quel cinema sa, la donna è il suo centro ispiratore e come afferma D. Anderson su Utamaro e le sue cinque donne:

Se le donne si sono ribellate contro un sistema di proibizioni, di scambi e di gerarchia stabilito dagli uomini […] è perché le donne soltanto vedono fino in fondo a questo sistema e ne percepiscono la futilità. Se hanno qualcosa da insegnarci, è la comprensione sovra-personale, sovra-storica, essenzialmente artistica dell’assurdità di tale esistenza”.

 Anderson ha colto un elemento importante nelle donne di Mizoguchi.

Vittime di un sistema che le relega a ruoli schiavili, esse appaiono in realtà ogni volta le vere vincitrici, ed è lo sguardo del regista a renderle tali.

Sembrerebbe esserci un’aporia fra un Mizoguchi spirito ribelle (e tutto il suo percorso di vita e di arte lo dimostra) e il “versante quasi stoico della sua risposta esistenziale”, continua Anderson.

E’ ciò che appare in superficie, ma un’analisi attenta vede quanto il contrasto sia solo apparente.Le sue donne sono costantemente al centro del caos, che è lo spazio dell’insicurezza, lì dove la violenza si esercita senza ragioni comprensibili, in una specie di sadismo che le rende vittime sacrificali.L’odore del sangue, la tortura del martirio, il degrado esistenziale le accompagnano senza tregua, sono donne in fuga, condannate, vendute, che si tratti di imperatrici o prostitute, geisha o figlie di famiglia, il loro posto nel mondo è sempre compromesso, negato, asservito.Eppure questa donna passa indenne attraverso prove di vita inenarrabili, rimanendo sempre trionfalmente sé stessa.Lo sguardo del regista su di lei é quanto di più tenero e pieno di rispetto si possa rivolgere alla donna, c’é una comprensione così profonda del suo essere che si stenta a credere provenga da un uomo.

Crebbe nella povertà più assoluta, Mizoguchi, assisté alla vendita di sua sorella quattordicenne come geisha, costretta dal padre a prostituirsi per sanare il suo tracollo economico.Visse con lei dopo la morte della madre, esercitando vari mestieri fin dai tredici anni (decoratore di stoffe, inserviente in ospedale) e solo grazie ai sacrifici della sorella riprese gli studi artistici e letterari, debuttando come regista nel ’22, a 24 anni. Ottanta film in 34 anni hanno dato forma ad una ispirazione essenzialmente poetica, il cui manifesto programmatico si può rintracciare in Utamaro del ’46, energica affermazione della libertà di espressione artistica contro rigidità e conformismi e canto sublime della bellezza femminile.

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Per la filmografia di Mizoguchi Kenji si rimanda alla sezione dedicata in AUTORI.
Di seguito alcuni dei suoi film più celebri corredati da  autorevoli posizioni critiche.

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Vita di O-Haru donna galante   1952

O-Haru, ex cortigiana reale ora prostituta segnata dagli anni nel viso affilato e nelle occhiaie profonde, rintraccia nel tempio, fra le numerose immagini allineate come numi tutelari, le sembianze di Katsunosuche, l’unico uomo che l’abbia amata e che lei amava. La legge degli uomini si è abbattuta su di loro, colpevoli di appartenere a caste diverse, con la katana che ha tagliato la testa di Katsunosuche e la caduta di O-Haru non ha più avuto fine. Il suono dello shamisen, alternandosi a fiati e percussioni, crea la base sonora che si colora di struggente amarezza nella scena di Shimabara, prostituta mendica che suona per strada, e un giorno sarà lei, O-Haru, al suo posto.

I racconti della luna pallida di agosto 1953

Miyagi e Ohama, mogli fedeli, lucide, quasi profetiche precorritrici di sventure, Cassandre di un mondo in cui la violenza non perdona l’intelligenza che si fa bontà, dedizione, annullamento di sè. La bellissima Wakasa, donna tentatrice eppure così fragile e indifesa nella sua inconsistenza fantasmatica, appare fra veli bianchi, incarnazione dell’eros che solo nel sogno si appaga.Non ha conosciuto l’amore di un uomo nella sua breve vita, vivrà la sua favola con Genjuro nel palazzo incantato, fino alla fine del sogno.

” Tutta Parigi deve correre a vedere questo film: quelli che amano il cinema e quelli che se ne infischiano, quelli che s’interessano al Giappone e quelli che non se ne curano. Come tutte le grandi opere, fa saltare le barriere dei generi e le frontiere delle nazioni. Non si può immaginare migliore ambasciatrice della cultura nipponica di questa storia tratta da leggende medievali e di cui i sottotitoli ci permettono di apprezzare la straordinaria poesia. Avretela rivelazione di un mondo in apparenza molto diverso dal nostro ma, nel profondo, del tutto simile. Toccherete con mano quel fondo comune di umanità, quel crogiolo da cui sono usciti tanto l’Odissea quanto il ciclo della Tavola Rotonda, con cui I RACCONTI DELLA LUNA PALLIDA D’AGOSTO presenta sconcertanti analogie.

Se amate i film giapponesi, andate a vedere questo: è il più bello. Se quelli finora giunti sui nostri schermi vi hanno deluso, ecco l’occasione di rifarvi. Senza dubbio Kenji Mizoguchi (…) è stato il più grande cineasta del suo Paese. Ha saputo praticare con rigore un’arte nata in altri luoghi e di cui i suoi compatrioti non sempre si erano serviti al meglio. E tuttavia non si trova in lui alcuna volontà servile di copiare l’Occidente. La sua concezione dell’inquadratura, della recitazione, del ritmo, della composizione, del tempo e dello spazio è del tutto nazionale, ma egli ci tocca allo stesso modo in cui hanno potuto toccarci Murnau, Ophüls e Rossellini. Per il regista, come per il poeta, non c’è che un solo grande tema: l’idea dell’unità nascosta sotto la diversità delle apparenze, ovvero, in termini drammatici, la ricerca esaltante e ingannatrice di un paradiso in cui “tutto è lusso, calma e piacere”. E tale motivo è in questo film il cuore stesso della fabula, che ci mostra i miraggi di cui sono vittime due contadini, tentati, l’uno, come Don Chisciotte, dal demone della guerra, l’altro, come Lancillotto, da quello dei sensi. Ma l’idea tradotta in immagini non ha nulla di astratto e, in questo caso, è evidente la superiorità del Giapponese su noi, uomini occidentali, incapaci di visualizzare sullo schermo il fantastico. I nostri film in costume puzzano di mascherata, i nostri film fantastici di trucco. Questo film, no. L’eleganza di scrittura del film, la raffinatezza di tutti i suoi dettagli sono per noi ricche d’infiniti insegnamenti. Ma tranquillizzatevi, non pretendo di mandarvi a vederlo come se fossimo a scuola. I RACCONTI DELLA LUNA PALLIDA D’AGOSTO ha, oltre a tutto il resto, una qualità di cui avreste potuto dubitare, leggendo il mio ditirambo. È un film vivo, appassionante, lieto, facile, di volta in volta emozionante e ricco di humour. Non c’è quel carattere solenne, astruso, tipico dei capolavori. Nessun accento ieratico, nessuna lentezza da Estremo Oriente. Sarete al contrario sorpresi, quasi delusi, di vedere apparire così in fretta sullo schermo la parola FINE”. (Eric Rohmer)

Le donne della notte   1948

Fusako è irrimediabilmente condannata dopo la morte del marito in guerra. Perso anche il figlio, malato di tubercolosi, viene sfruttata dal datore di lavoro che ne fa la sua amante per poi abbandonarla. Sua sorella Natsuko ha visto i genitori morire di fame e si guadagna da vivere in una sala da ballo come hostess. La sifilide farà il resto.La piccola Kumiko decide di scappare dalla famiglia e finirà anche lei sulla strada, dopo uno stupro. Un film di contrasti stridenti, come la sua musica, come la dolcezza e la tensione di un legame tra sorelle che si ritrovano e si allontanano continuamente, come la costrizione che immobilizza qualsiasi resurrezione e la profonda aspirazione alla libertà che si legge nei rari primi piani sul volto delle donne, e solo di quelle.

Amanti crocifissi 1954

O-san è una donna di Kyoto, moglie di Ishun, trent’ anni più di lei, ricco e spietato mercante di almanacchi con ottime commesse dalla famiglia imperiale. Mohei, esperto decoratore e devoto servo di casa, vive nell’ombra, ma il gioco beffardo del destino farà loro scoprire un amore reciproco e inconfessato che li porterà alla morte. Mohei é generoso, onesto, diverso, ma non abbastanza forte. Sul cavallo che porta i due adulteri legati strettamente insieme al supplizio, mentre Amore e Morte celebrano ancora una volta la loro danza tragica, il volto di O-san é sorridente, Mohei le stringe la mano. O-Tama, servetta indifesa concupita da Ishun, ama segretamente Mohei. Per lei non c’è spazio né pena.

“Egli sembra essere l’unico regista giapponese che è completamente giapponese ed è ancora anche l’unico che realizza una vera universalità, quella di un individuo. ” (Jacques Rivette)

L’intendente Sansho 1954

“Il problema principale riguardo a Mizoguchi è rappresentato dal fatto che non è possibile analizzare i suoi film. Da ciò deriva la sua grandezza. Non c’è psicologia, la sua è una forma particolare di lirismo. […] In Mizoguchi abbiamo l’evidenza dell’essere umano […] Movimenti di rara bellezza, una forma precisa nonostante girasse i suoi film molto velocemente. Quando la mdp si allarga ad inquadrare il mondo, sembra inghiottire e comprendere ogni cosa”. (C.Chabrol)

La strada della vergogna
 1956

“Mentre la cinepresa scivola nella storia con i personaggi, al tempo stesso è lei a condurre il gioco, senza averne l’aria”. (Jean Douchet)

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