Le donne della notte

Yoru no onnatachi – Giappone, 1948, durata 74’

di Kenji Mizoguchi, con Kinuyo Tanaka, Sanae Takasugi, Hiroshi Aoyama, Fusako Maki

Il Giappone dell’immediato dopoguerra ha avuto in Kurosawa e Mizoguchi i suoi grandi rapsodi, che ne hanno cantato la caduta e il dolore scrutando nei bassifondi di Tokyo e nelle strade di Osaka, fra macerie reali e morali con cui s’imparò a convivere, purchè non ci si chiedesse perché farlo, sarebbe stato difficile rispondere in quegli anni.

Il piccolo Edmund di Germania anno zero di Rossellini si lancia nel vuoto di una Berlino spettrale, popolata dagli stessi ectoplasmi che si aggirano per le strade del Giappone.

Yusa, sbandato reduce di guerra, è il Cane randagio di Kurosawa e la piccola Hirumi, ballerinetta di squallidi music hall all’americana, non può essere la donna che lo salva.

Sanada de L’angelo ubriaco è, sì, un angelo, ma a patto di ubriacarsi, perché “per far sopravvivere i propri sogni in quel quartiere putrido e di malaffare bisogna bere, anche acquavite pura, se non c’è di meglio”.

Mizoguchi gira il suo settantatreesimo film nel ’48, ed è un “film di guerra”, che parla di donne a cui non resta che vendere il proprio corpo, unica “risorsa” in un mondo che non permette di sopravvivere da sole (anche nella Germania devastata di Rossellini le scelte non erano molte, come per le Troiane di Euripide) .

Fusako è irrimediabilmente condannata dopo la morte del marito in guerra.

Perso anche il figlio, malato di tubercolosi, viene sfruttata dal datore di lavoro che ne fa la sua amante per poi abbandonarla.

Sua sorella Natsuko ha visto i genitori morire di fame e si guadagna da vivere in una sala da ballo come hostess.

La sifilide farà il resto.

La piccola Kumiko decide di scappare dalla famiglia e finirà anche lei sulla strada, dopo uno stupro.

Nessuna di queste tre donne ha alternative per sfuggire alla fame,

gli ambienti in cui vivono sono ripresi con realismo implacabile, in lunghi piani sequenza girati in luoghi veri, l’ospedale di Osaka, fra prostitute e tossicodipendenti in astinenza, bordelli e quartieri malfamati di Tennoji e Kamagasaki, dove la troupe di Mizo san ebbe i suoi problemi a girare, le strade del mercato nero e dello spaccio di droga, animate da una pletora di sopravvissuti, deprivati di tutto quanto potrebbe definirli umani.

Mizoguchi ha molto presente in questo momento del suo cinema la lezione del neorealismo italiano, il piano sequenza rossellinianio sembra proseguire in terra giapponese, in un sistematico disfarsi dello spazio e della sua identità fatta di storia, tradizioni, cultura.

Roma/Berlino/Tokio: città che la guerra ha reso uguali, e i bambini muoiono, la maternità è negata, la donna affonda ancor più velocemente che in epoche passate.

La moda Pan-Pan mono, romanzi o film che trattavano storie di prostitute, introdotta all’epoca dalla novella Nikutai no mon (La porta della carne) di Taijiro Tamura, imperversava, si avvertiva ovunque quel ricorrere guasto, malato, ad una sensualità che si sprigionava come fuga dall’idea di morte e che arrivava, infine, a tradursi in violenza.

Dimenticare e dimenticarsi era l’imperativo, ma soprattutto sopravvivere, a qualsiasi prezzo.

Un film, allora, necessario, ma soprattutto un film sconcertante, in cui, come osserva Ghezzi in una “videocosa” dei contenuti extra del DVD, sembra che Mizoguchi voglia annullare lo spazio, come disfacendolo per sbarazzarsene, col gusto di lasciarlo andare per conto suo, seguendo le pulsioni dei protagonisti, in uno “scandaloso andare contro una genialità formale di figurazione dello spazio” che tornerà nei grandi capolavori successivi, ma sarà un tornarvi filtrato da questo bisogno di sbarazzarsene pur rientrandovi successivamente, anzi, proiettandolo in un passato ancora più lontano con le sue storie di donne e ronin e vicende di età feudale.

Sono consapevole di aver fatto un film barbaro. Ho cercato il corpo a corpo anche con gli oggetti”, dichiarò il regista che ingaggiò anche altre lotte, come quella col vecchio ed esperto operatore Sugiyama che non riusciva a rassegnarsi all’idea di girare le scene come quelle di Roma città aperta, un réportage filmato che affascinava Mizoguchi.

Un film di contrasti stridenti, come la sua musica, come la dolcezza e la tensione di un legame tra sorelle che si ritrovano e si allontanano continuamente, come la costrizione che immobilizza qualsiasi risurrezione e la profonda aspirazione alla libertà che si legge nei rari primi piani sul volto delle donne, e solo di quelle.

Gli uomini sono figure sbiadite, appena abbozzate sullo sfondo, o addirittura assenti.

Il loro operato è tutto squadernato nel destino di queste donne, rese così schiave dalla violenza da trasformarsi in aguzzine loro stesse, con quella perversione che ama infliggere orrore quanto più il tempo è tempo di sventura.

La scena finale, inevitabilmente e volutamente esagerata, melodrammatica, sfuma in quell’immagine absidale su vetro della Vergine con bambino, resto utopico, di altra religiosità, tra macerie.

Tornano alla mente due versi di Artaud:

Era un sera antica in cui l’anima di Dio crolla,

Ruota nei fremiti del fogliame illividito.

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