I racconti della luna pallida di agosto di Mizoguchi Kenij

La genesi letteraria di Ugetsu Monogatari è in due racconti della raccolta omonima del 1776 di Ueda Akinari (L’albergo di Asaji e La lubricità del serpente) e in Décoré, uno dei Racconti soprannaturali di Maupassant.

Al di là dell’elemento fantastico presente nei vari testi e delle differenze che si registrano in certi snodi dell’intreccio e nel trattamento di alcuni personaggi, il tema comune è il discorso sulla natura delle donne e la loro posizione nella società giapponese, sul ruolo sociale di depositarie di valori quali abnegazione, rinuncia a sè stesse, dedizione alla famiglia e al culto del focolare domestico e, di contro, la sofferenza causata da uomini violenti o negligenti, in ogni caso detentori di un indiscusso potere di sopraffazione sulle loro vite.

L’insistenza sulle devastazioni e gli orrori della guerra segna una differenza molto esplicita nel film rispetto ai precedenti letterari, e il modello di femminilità sancito nell’era Tokugawa, che nelle storie di Akinari è il reagente di una situazione sociale restrittiva e repressiva, qui si carica di una complessità più profonda, divenendo cartina di tornasole della presenza del male nel mondo e della crudeltà di una vita in cui sembra che al genere umano non resti che “…far torto o patirlo” (e l’Ermengarda manzoniana non si discosta di molto dalle eroine dolenti di Mizoguchi).

Ugetsu Monogatari, girato nel Giappone del dopoguerra e dell’occupazione americana, esprime istanze sociali nuove per l’industria cinematografica giapponese, la rappresentazione della condizione femminile, tema centrale in Mizoguchi, diventa qui indagine storica e analisi di costume, critica sociale e sguardo sulla condizione umana tout court.

In questa prospettiva tutti i personaggi, non solo quelli femminili, sono termini di uno scandaglio psicologico che ne fa modelli di un’umanità verso la quale si esercita, profonda, la pietas dell’autore.

Uomini che sbagliano e, dolorosamente consapevoli, pagano le conseguenze delle loro azioni in un estremo tentativo di riscatto, convivono con figure femminili che dominano la scena come punti di luce nella straordinaria varietà dei toni chiaroscurali che segnano quest’opera, anche sul piano sonoro oltre che visivo.

Il suono di cimbali e liuti s’insinua, sottile e penetrante, fra le sonorità dello shamitsen e il martellare delle percussioni, commenta la dolcezza leggera dei momenti elegiaci o accentua la spettralità dell’elemento onirico/fantastico in un racconto che utilizza in modo magistrale gli stilemi del Kaidan eiga classico, modello narrativo di matrice Tokugawa che, impiegando elementi soprannaturali in chiave allegorica, li fonde con la concretezza di una realtà fisica registrata con cura calligrafica.

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La storia di Ugetsu oscilla tra realtà e sogno nella regione rurale Ohmi, alla fine del secolo XVI.


Due coppie di giovani sposi (Genjuro e Miyagi con il figlioletto, Tobei e Ohama) vivono del loro lavoro in un villaggio, povero come tanti in età feudale.

Genjuro è un bravo vasaio e il fratello Tobei un contadino che sogna di diventare samurai.

Un po’ romantico ma di debole volontà il primo, artista di un’arte minore, la ceramica, sguardo di cane buono non immune da involontaria ferocia nell’irresponsabilità che lo contraddistingue di fronte ai suoi doveri di padre e marito; più rozzo il secondo, personaggio picaresco, un miles gloriosus su cui ridere, se la sua presenza non lasciasse una tragica orma sul destino della moglie Ohama.

La guerra civile si avvicina e i due uomini abbandonano le donne, la casa, il figlio, per inseguire le loro ambizioni di guadagno e di gloria. Lutti e rovina si abbatteranno sulle due famiglie e inutili saranno state le esortazioni delle mogli, lucide, quasi profetiche precorritrici di sventure, Cassandre di un mondo in cui la violenza non perdona l’intelligenza che si fa bontà, dedizione, annullamento di sè.

La storia di questi destini si dipana in un susseguirsi di quadri di stupefacente bellezza pittorica, un movimento circolare attraversa il tempo della narrazione, inizia e finisce nel villaggio e nella casa di Genjuro, la macchina segue le evoluzioni della vicenda, dapprima comune e poi parallela, di uomini e donne che appaiono e scompaiono in un tessuto narrativo complesso ma che ha la stessa trasparenza leggera di una fiaba e di questa tutta la forza evocatrice e l’eco fantastica.

La traversata fra le brume del lago Biwa, lo spuntare nella nebbia del barcaiolo morente, inquietante figura Acherontea, l’apparire fra veli bianchi della bellissima Wakasa, donna tentatrice eppure così fragile e indifesa nella sua inconsistenza fantasmatica, l’oscillare tra reale e irreale negli interni del palazzo dell’amore che rompe i vincoli famigliari di Gensjuro e che solo il sutra sanscrito dipinto sul suo corpo salverà, e, infine, la popolana, festosa baldanza del corteo del novello samurai Tobei, il chiasso del bordello, le scene strazianti dello stupro di Ohama e della morte di Miyagi col figlioletto che piange legato alla sua schiena, tutto questo straordinario convivere di elementi disparati, molteplici, rutilanti, in un’architettura filmica compatta, tesa e insieme fluida e trasparente, fanno di Ugetsu Monogatari una grande pagina nella storia dell’arte.

La sequenza finale è una delicata elegia e insieme un compianto funebre, è lo svelamento della fiaba e lo sguardo verso un futuro forse migliore.

La voice over di Miyagi parla a Genjuro, mentre il figlioletto sistema i fiorellini sulla tomba, subito lì, fuori della capanna:

Non sono morta mio amato, sono qui vicino a te,
le tue illusioni si sono dissipate, sei a casa adesso,sei di nuovo te stesso,
altro lavoro ti attende.
Che forma meravigliosa quel vaso!
aiutarti è il mio piacere più grande.


Sono successe tante spiacevoli cose e adesso che sei diventato il mio marito ideale,ahimé, non sono più in questo mondo.

A ciò, mio amato, bisogna rassegnarsi…

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[1] Un entusiasta Eric Rohmer così scrive del film “ Tutta Parigi deve correre a vedere questo film: quelli che amano il cinema e quelli che se ne infischiano, quelli che s’interessano al Giappone e quelli che non se ne curano. Come tutte le grandi opere, fa saltare le barriere dei generi e le frontiere delle nazioni. Non si può immaginare migliore ambasciatrice della cultura nipponica di questa storia tratta da leggende medievali e di cui i sottotitoli ci permettono di apprezzare la straordinaria poesia. Avrete la rivelazione di un mondo in apparenza molto diverso dal nostro ma, nel profondo, del tutto simile. Toccherete con mano quel fondo comune di umanità, quel crogiolo da cui sono usciti tanto l’Odissea quanto il ciclo della Tavola Rotonda, con cui I RACCONTI DELLA LUNA PALLIDA D’AGOSTO presenta sconcertanti analogie.
Se amate i film giapponesi, andate a vedere questo: è il più bello. Se quelli finora giunti sui nostri schermi vi hanno deluso, ecco l’occasione di rifarvi. Senza dubbio Kenji Mizoguchi (…) è stato il più grande cineasta del suo Paese. Ha saputo praticare con rigore un’arte nata in altri luoghi e di cui i suoi compatrioti non sempre si erano serviti al meglio. E tuttavia non si trova in lui alcuna volontà servile di copiare l’Occidente. La sua concezione dell’inquadratura, della recitazione, del ritmo, della composizione, del tempo e dello spazio è del tutto nazionale, ma egli ci tocca allo stesso modo in cui hanno potuto toccarci Murnau, Ophüls e Rossellini.

Per il regista, come per il poeta, non c’è che un solo grande tema: l’idea dell’unità nascosta sotto la diversità delle apparenze, ovvero, in termini drammatici, la ricerca esaltante e ingannatrice di un paradiso in cui “tutto è lusso, calma e piacere”. E tale motivo è in questo film il cuore stesso della fabula, che ci mostra i miraggi di cui sono vittime due contadini, tentati, l’uno, come Don Chisciotte, dal demone della guerra, l’altro, come Lancillotto, da quello dei sensi. Ma l’idea tradotta in immagini non ha nulla di astratto e, in questo caso, è evidente la superiorità del Giapponese su noi, uomini occidentali, incapaci di visualizzare sullo schermo il fantastico. I nostri film in costume puzzano di mascherata, i nostri film fantastici di trucco. Questo film, no.
L’eleganza di scrittura del film, la raffinatezza di tutti i suoi dettagli sono per noi ricche d’infiniti insegnamenti.

Ma tranquillizzatevi, non pretendo di mandarvi a vederlo come se fossimo a scuola. I RACCONTI DELLA LUNA PALLIDA D’AGOSTO ha, oltre a tutto il resto, una qualità di cui avreste potuto dubitare, leggendo il mio ditirambo. È un film vivo, appassionante, lieto, facile, di volta in volta emozionante e ricco di humour. Non c’è quel carattere solenne, astruso, tipico dei capolavori. Nessun accento ieratico, nessuna lentezza da Estremo Oriente. Sarete al contrario sorpresi, quasi delusi, di vedere apparire così in fretta sullo schermo la parola FINE.”

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I racconti della luna pallida di agosto

titolo originale: Ugetsu Monogatari

Giappone, 1953, durata 97’

di Mizoguchi Kenji

con Machiko Kyo, Masayuki Mori, Kinuyo Tanaka, Sakae Ozawa

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