“Mio nonno incominciò a soffrire di demenza senile quando avevo sei anni, la parola Alzheimer non esisteva ancora e nessuno dei miei parenti e coloro che ci conoscevano riusciva a capire cosa stesse succedendo….Riuscivo a comprendere ben poco di quanto accadeva, ma ricordo che incominciai a pensare che la gente dimenticava ogni cosa quando moriva” (dal pressbook di After Life)
Al suo secondo lungometraggio dopo Maborosi, sono ancora la morte e la memoria a condurre Kore-eda lungo le strade della meditazione e rappresentazione attraverso il cinema.
Con Wandafuru Raifu Kore-eda elabora una fantasia più complessa di quella creata in Maborosi, reale e irreale si alternano convivendo fino a rendere impossibile la percezione del loro confine, gli scenari sono ancorati ad un presente ben definito (interni ed esterni, condizioni climatiche, dinamiche interpersonali fra personaggi) ma si viene continuamente rigettati in un oltre-mondo che costringe ogni volta a tarare la percezione fra stupore e smarrimento.
Prigionieri delle nostre categorie mentali, fatichiamo a identificarci, non ci è permesso liquidare come favola, mito, sogno, evasione o incubo quello a cui assistiamo, ma allo stesso tempo non riusciamo neppure a classificarlo come metafora da cui estrarre i connotati di una realtà rassicurante.
Come afferma Yong-Kyun Bae per Milestone Film & Video Release, assistiamo ad una “… scoperta della vera natura delle cose e fondamenta dell’anima (potremmo dire gli archetipi del sé), in contrapposizione con i metodi estremamente razionali degli psicoanalisti.”
Si tratta di scegliere un ricordo, dopo morti, after life, uno solo, a cui rimanere abbarbicati per l’eternità, bisogna che qualcosa del passaggio nella vita non si cancelli come tutto il resto.
Ogni settimana un certo numero di defunti freschi freschi passa per quegli uffici che hanno il desolato grigiore scorticato dei paesi d’oltre cortina prima della caduta del muro.
Seduti ad un tavolo, ripresi di fronte, ascoltano una voce che fa domande e dà istruzioni: hanno tre giorni per decidere quale ricordo portare con sè, poi si passerà al making off dei ricordi in un set molto artigianale e alla proiezione successiva del breve filmato realizzato al momento.
Entro il sabato ognuno sparirà definitivamente, consegnato alle arcane e infinite profondità dell’etere col suo piccolo tesoro.
Il personale addetto è fatto di trapassati che, quando è stato il proprio turno, non sono riusciti a trovare un ricordo che valesse la pena di portare con sé e passarci insieme l’eternità, dunque prestano servizio lì in attesa di trovarlo,non si sa mai che torni a galla dal magma confuso del passato qualcosa di buono.
Tanto per esemplificare, questo è ciò che accade a Shiori, un giovane di 22 anni, morto cinquant’anni prima, ferito a morte nelle Filippine. Per una di quelle coincidenze incredibili della vita (o sarebbe meglio dire della morte) arriva al “paese che non c’è” tale Watanaba e, per un intreccio da non spoilerare per nessuna ragione, anche Shiori potrà finalmente decollare verso l’eternità col suo ricordo filmato.
Tra i due estremi del film, che ha una struttura circolare segnata dai nuovi arrivi settimanali di anime che entrano dal portone di fronte uscendo da una nebbia lattiginosa, passano alla réception e si avviano all’intervista, scorre un autentico campionario di varia umanità
Età diverse, giovani, meno giovani, decisamente decrepiti, ambosessi, nei frammenti di storie che raccontano, qualcuno anche annaspando alla ricerca di qualcosa (capita anche questo nella vita, si rimuove continuamente finchè non resta niente o si vive senza che niente meriti di depositarsi nella memoria) passa di tutto: dolore, inettitudine, delusione, felicità (strano a dirsi, ma c’è anche questa, ed è il ricordo più simpatico, quello della donnetta che da ragazzina ballava “Scarpette rosse” per il fratello e i suoi amici).
Come scrive Dario Tomasi “… si potrebbe leggere nel mondo ultraterreno di After Life una forma di assistenza sociale “estrema” prolungata oltre la soglia della vita” (M. Dalla Gassa-D.Tomasi, Il cinema dell’Estremo Oriente, UTET, 2010, p.208).
I nostri bravi morti, alla fine di lunga cogitazione, riusciranno tutti, tranne uno che prenderà il posto di Shiori, a procurarsi quel viatico per l’eternità.
Ed è proprio così, quella breve permanenza funziona anche come assistenza sociale estrema, perché quello che non abbiamo ben capito in vita abbiamo sempre tempo di capirlo nell’al di là.
E’ un po’ come la monetina per Caronte, se vuoi essere traghettato oltre l’Acheronte la devi pagare, altrimenti resti sulla spiaggia, anima infelice senza destino ultraterreno finché non arriva qualche benefattore a regalartela.
E chi può fare questo miracolo?
Ma il cinema, e chi altrimenti?
Piccoli corti, anzi cortissimi, con nuvole di ovatta e marchingegni self made, messi insieme alla meno peggio dalla troupe, costruiscono la nuova realtà traendo spunto da quella ormai fuori orario e fuori uso, l’abbelliscono e la proiettano sullo schermo.
Il momento anonimo, faticosamente venuto a galla dal magma del tempo, è lì, fulgido come nuovo.
Ora è diventato immortale, come il cinema.
Siamo salvi, non affogheremo nel Lete.
titolo originale:Wandafuru raifu
Giappone 1998 durata 118’
di Hirokazu Koreeda
con Arata, Erika Oda, Susumu Terajima, Taketoshi Naito, Kyoko Kagawa
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