Hayat var di Reha Erdem

Presentato nel 2009 a Berlino e a Karlovy Vary, a Istanbul e a Torino Hayat var dice in turco che La vita c’è.

Il titolo internazionale nasce da un ritornello, “You’re my sunshine, my only sunshine”.

Lo ripete fino alla nausea un peluche meccanico, un buffo pupazzo rosso, surrogato affettivo della protagonista (quando non succhia addirittura il pollice o non ruba il ciucciotto al fratellastro in fasce). Molto opportunamente, alla fine del film, il peluche sarà lanciato in mare.

Hayat è il nome di una bruna ragazza silenziosa di 13 anni (o forse 14, dice lei brevemente, una delle pochissime battute uscite dalla sua bocca).

Quasi non servono sottotitoli per capire il turco di questo film, il dialogo è scarno, registra parole di ordinaria esistenza quotidiana ai margini di una città, Istanbul, che si vede solo in veloci skyline in controluce, sull’altra riva del mare.

I minareti la rendono inconfondibile, ma li vediamo solo apparire appena e sparire sul profilo delle rive del Bosforo. Qualche gabbiano isolato stride nel vento, gli altri sono tutti assiepati intorno ai festosi traghetti per gite turistiche sul Bosforo. Hayat guarda il mare, è di spalle. Erdem ama questa inquadratura che nega lo sguardo e racconta il silenzio della solitudine.

Quando la ripresa è frontale, i lunghi capelli neri le coprono mezza faccia, il resto è imbronciato, smarrito, inerte, assorto. Di rado, molto di rado, un’ombra di sorriso.

Il padre é un pescatore che più che sardine non pesca. In realtà è dedito, evidentemente con scarsi introiti, a loschi traffici di prostituzione e quant’altro che non ci è dato sapere.

Va e viene con la barchetta a motore, raccoglie in mare la prostituta che i puttanieri a bordo hanno defenestrato, porta in giro qualcosa da sniffare, si prende a botte con uno sfigato peggio di lui, e alla fine la guardia costiera lo beccherà sotto una nave che aspetta di fare una consegna. Sulla via del ritorno raccoglie la figlia reduce (è il caso di dirlo, con quella prof, quel preside e quei compagni) da una giornata di scuola.

Hayat é seduta ad aspettarlo rivolta al tramonto, sul muretto di fronte al mare.

Arriveranno con le sardine da friggere nella catapecchia sulla riva destra dello stretto, la riva asiatica, quella dei poveri in canna che da secoli guardano in faccia la città opulenta dall’altra parte. Poche parole tra loro, quasi niente, ma c’é affetto reciproco, l’unico che sia dato percepire in un mondo deprivato, il solito scenario, a tutte le latitudini, dei dannati della terra, quelli che malattia e bisogno costringono ai minimi termini in fatto di qualità della vita e, dunque, anche di pensieri e sentimenti.

Un nonno rompipalle, con enfisema polmonare all’ultimo stadio, steso a letto con ossigeno e, appena può, sigarette; un televisore che non funziona; una madre che ha pensato bene di rifarsi una vita e un altro figlio con un baffuto poliziotto; una grassa e appiccicosa vicina che ha per lei un attaccamento morboso ai limiti del profilo lesbico; un droghiere pedofilo che la schiaccia contro lo scaffale.

Cosa manca alla vita di Hayat perché il suo nome non sembri un’orribile beffa?

Hayat non ha parole, e cosa potrebbe dire di fronte a tanto? E a chi? E, soprattutto, cosa c’é in tutto questo che la faccia sembrare una romantica eroina un po’ alla Dickens o alla Victor Hugo?

Nulla, assolutamente nulla.

Erdem non carica le tinte, il suo è il realismo amaro e senza lacrime che connota tanto cinema turco. Lascia indizi qua e là in scene brevissime, la percezione di quello che accade tesse legami analogici nel profondo, là dove il senso costruisce le sue storie complesse, vere, quelle che non appaiono in superficie.Tutto si riassume nei brevi tocchi di una partitura di poche note, e la protagonista è una presenza silenziosa che la mdp non perde mai di vista.

Hayat non piange, non urla, non chiede mai nulla, il suo silenzio è la risposta al mondo in cui si trova a vivere. E’ il silenzio di chi deve capire ancora prima di far domande, e non c’è nessuno a cui farle.

Sono le domande di una bambina che sta diventando donna, e trova il lenzuolo bagnato di sangue mestruale; che regredisce all’infanzia succhiando il dito e un attimo dopo si colora la bocca col rossetto che le dà l’amica del padre; che sistema le bombole di ossigeno e dà da mangiare al nonno, ma poi capisce che lì c’è la morte e lei deve scegliere la vita.

Erdem segue da vicino Hayat, mobile  con la macchina a spalla  o con fermo immagine che costruisce scene cromaticamente perfette, fatte di masse e volumi in accesi contrasti, come gli scafi enormi delle navi che incombono sulla barchetta del padre in attesa che qualcuno salga o scenda la scaletta.

Nello  sguardo di Hayat è la sua soggettiva totale. Quel guardare tra i capelli diventa allora il nostro, e l’empatia nasce immediata, le sue reazioni senza linguaggio traspaiono in una filigrana a maglie molto larghe, ne sentiamo tutte le oscillazioni tra realtà e sogno, cupio dissolvi e spinta vitale, smarrimento infantile e sfrontatezza della donna che fa uno sberleffo al mondo che la violenta.

Hayat potrebbe scegliere di evadere da quella specie di fogna prostituendosi, tante lo fanno e la scelta non è neppure difficile da percorrere. E’ bella, col rossetto che le dà una tizia già su quella strada lo è ancora di più.

Getterà in mare lo stick, dopo essersi imbrattata la faccia di rosso, così il suo bellissimo sorriso risplenderà ancora di più fra i ventagli d’acqua che si alzano ai lati del motoscafo su cui corre verso l’orizzonte, chissà dove arriverà con quel ragazzetto dalla faccia colorata anche lui, come a Carnevale, anche se Carnevale non è?

Il processo diegetico del film non avanza in modo lineare, tra realtà e immaginazione si svolge intorno ad un cerchio in cui tutti i punti sono alla stessa distanza dal centro.

E il centro è lei con il suo nome, Hayat.

Potremmo guardarlo dall’inizio alla fine e viceversa, nulla cambierebbe, e lungo il cerchio il ritmo di Hayat var è l’oscillazione.

Oscilla il profilo in controluce di padre e figlia sulla barca che scivola sull’acqua, oscillano i pensieri di Hayat tra regressione e crescita, oscilla il mondo fra vita e morte.

Ma Hayat var, ci dice la storia, la vita c’è, c’è l’amore, con le sue fatiche e le sue tristezze, lo ripetono le canzoni di Orhan Gencebay, musica solo autoctona per uno score affidato soprattutto al rumore del mare, ai rantoli del nonno, alle sirene assordanti delle navi e al petulante, odioso pupazzzo di peluche :

You’re my sunshine, my only sunshine”

Ma Hayat c’è, e chissà se prima o poi imparerà anche le parole per dirlo?

Hayat var – My Only Sunshine

Turchia, Grecia, Bulgaria, 2008, durata 121’

di Reha Erdem

con Önder K. Açikbas, Erdal Besikçioglu, Banu Fotocan, Elit Iscan, Handan Karaadam, Erhan Tekin, Metin Yildirim, Levent Yilmaz

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