Outrage di Kitano Takeshi

Ma dove siamo?

In Brother lo sapevamo da subito, era l’America di Beat Takeshi in trasferta a scaricare interi caricatori su quell’ l’internazionale mafiosa, gli yakuza c’erano tutti, tremendi e spietati, ma avevano portato in valigia il loro cerimoniale, il senso dell’onore, il rispetto quasi religioso delle gerarchie.

C’erano la musica di Hisaishi e il gusto dell’ironia grottesca che strappava un sorriso e una battutaccia perforante.

Qui è saltato tutto, dieci anni dopo the real brothers sono loro, questi rappresentanti di un campionario unico al mondo di modi sbrigativi per uccidere o semplicemente massacrare una persona con armi da taglio e da fuoco (una decapitazione su strada con fune a trazione di auto e un affondo con trapano in bocca sono gli unici tocchi di fantasia).

Quasi del tutto abolite le forme di comunicazione linguistica che non siano ordini di servizio o scarni piani strategici per far fuori qualcuno, ridotta al minimo la gestualità, nulla che sia affidato allo sguardo oltre il puro atto del vedere, qui siamo ormai ultra, etimo quanto mai calzante, non resta  che procedere per accumulazione nel fare a pezzi i membri del clan rivale e andare oltre tutte le barriere dell’oltraggio, del ledere, del negare lo status quo ante di uomini.

Kitano tira le somme di un percorso ormai ventennale e dice: è ancora credibile il pensare ad una convivenza tra esseri umani che non sia questo?

Chiaramente il valore allegorico della rappresentazione porta alle estreme conseguenze l’assunto di base, e il concentrato di violenza a cui assistiamo vuole avere tutta la forza della provocazione.

Paradossalmente, proprio quelli che tanti hanno messo in evidenza come i limiti del film (un collage di scene senza fantasia, meccanicità ripetitiva e mancanza di approfondimento psicologico, assenza di anima e vuoto che sconfina nella piattezza) sono i suoi crediti più forti.

C’è il vuoto, infatti, e il vuoto lo si rappresenta col vuoto. E’ Tokyo, ma potrebbe essere qualsiasi altra metropoli.

Vuota di chiunque altro non sia uno yakuza, interni ed esterni sono stati ripuliti accuratamente da qualsiasi traccia del passaggio di un’umanità diversa, le poche figure femminili sono funzionali a questo mondo di assassini in doppio petto scuro, che sfilano compatti in lunghe teorie di macchine lussuose su strade vuote e asettiche.

A distanza s’intravede a tratti il mare, ma non ha voce né colore, escort mute e immobili finiscono spesso sgozzate nel letto dopo il rapporto, e l’unica battuta rivolta alla moglie da Otomo (Beat Takeshi), molto seccato perché lei vuole una nuova auto, è: “Idiota, vuoi morire?”.

Genera fastidio tutto questo perchè è abolita ogni concessione consolatoria, prevalgono gli interni claustrofobici, ma anche quando si esce all’esterno la sensazione di gelo  non cambia. Siamo lasciati sulla porta a guardare allibiti, tirare il fiato non expedit, se di yakuza si parla questa è la realtà, e non c’è verso di farsi coinvolgere emotivamente, non è un horror, nè un noir nè un thriller, non lancia messaggi diperati sul destino dell’umanità. Forse non si può neppure definire un film realistico, anzi è più surreale di quanto non sembri.

Bandite le scienze umane resta il deserto e il coraggio di farlo vedere. 

Questo, ci dice Kitano, è l’after day, e l’abbiamo voluto noi, non malediciamo la natura e gli dei e non inventiamo favole, guardare il male produce catarsi, qui no, nessuna purificazione in corso, usciamo con il sapore di fiele in bocca di chi vede scoprire davanti a sé tutte le carte dell’ipocrisia umana: inchini, padre, fratello, presidente, pulizia e decoro esteriore, c’è tutto, l’horror non è necessariamente fatto di mostri ghignanti nè di pazzi.

Outrage

titolo originale: Autoreiji 

Giappone, 2010 durata 130’

di Takeshi Kitano, con Takeshi Kitano, Jun Kunimura, Ryo Kase, Renji Ishibashi, Kippei Shiina, Takashi Tsukamoto, Tetta Sugimoto, Fumiyo Kohinata, Tomokazu Miura, Sôichirô Kitamura

 

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