Twentynine Palms di Bruno Dumont

Una coppia di amanti, un fuoristrada, il deserto, il sesso, la morte.

Dice Dumont : Io voglio dare forma alla pietà, suscitare compassione nella mente dello spettatore”- e, più avanti, parla del “bisogno di raccontare la crudeltà, il buio, le ombre ma anche i piccoli spiragli di luce degli esseri umani”.

Se sgombriamo il campo da pre-giudizi su cosa debba fare un artista che non abbia già fatto un altro (pensiamo alle Maternità di cui traboccarono per secoli le chiese. Certo la Madonna di Bruges le batte tutte, ma stiamo parlando di Michelangelo!) se lasciamo perdere questioni attinenti la noia indotta da macchina fissa, coiti reiterati, lunghe strade senza traffico dove il fuoristrada rosso si muove lento (a qualcuno ha dato perfino fastidio che fosse rosso, no, dev’essere bianco! ) se ci poniamo di fronte a Twentynine Palms cercando di capire cosa ha voluto dire il regista, che tassello inserire nel discorso iniziato con La vie de Jésus, abbiamo buone probabilità di non sfiorare il ridicolo.

Tratto dalla presentazione di un catalogo del 2004 dedicato a grandi nomi della fotografia internazionale, scrive Raffaele Morelli, psichiatra, psicoterapeuta, direttore di Riza psicosomatica:

C’è un mistero profondo, immenso, nello sguardo dell’uomo, come se le cose, gli oggetti potessero, attraverso la visione, penetrare in una realtà più sottile, in un mondo senza corpo, in un luogo in cui la sostanza, la materia, divengono diafane, impalpabili. I corpi, grazie allo sguardo, diventano luoghi di senso. Quando guardiamo il mondo si forma un’osmosi tra l’osservatore, il suo sguardo e le cose che entrano nell’occhio. Con lo sguardo tocchiamo e cambiamo il mondo, venendo a nostra volta modificati dalle immagini degli oggetti che si sdraieranno nel nostro spazio interno, verranno a far parte della nostra chimica cerebrale.

Azioni impensabili agli occhi limitati della ragione, diventano mondi vivi, pronti a trasgredire ogni dimensione dello spazio usuale, ricordandoci che la vita è prima di tutto creatività e ancor di più Eros.

Il nudo e l’eros si congiungono l’un l’altro, si intersecano, parlano di una magia nascosta nei corpi, di un potere segreto, sconosciuto, che scopre nei dettagli l’infinita presenza del desiderio, del piacere.L’identità è nei corpi nudi, sperduti nei paesaggi, luoghi sconosciuti, senza volto, disintegrati dalle identità eppure capaci di rinascere incessantemente. L’identità impedisce di essere la voce del sacro, dell’estasi, dell’illuminazione, dove l’Eros implode nel cervello”.

Lo spettatore, secondo Dumont, è capace di affrontare i personaggi nella loro crudezza, perché questo è ciò che si chiede.

Crudezza è il nudo, è il coito ripreso nel suo svolgersi, nelle sue esplosioni vocali, è quel serpeggiare di tratti isterici sotto la patina di comportamenti consueti, la dolcezza che si trasforma in risata apparentemente insensata, o in lacrime subito ingoiate.

I dialoghi sono elementari? Certo, è il parlare della quotidianità che il più delle volte reca tracce di una convivenza ormai consunta dall’abitudine.

I due si amano? A loro modo sembrerebbe  di sì, i corpi si desiderano e si integrano, nella natura meglio che nella squallida piscina o stanza di motel.

Ma da una storia d’amore al cinema non ci si aspetta un improvviso cambiamento di scenario, piuttosto una gradualità, un mostrare in step successivi o flashback chiarificatori cosa mai scateni reazioni isteriche di Katia per un nonnulla. Ma il cinema non racconta, rappresenta.

Dunque, dopo aver disseminato indizi lungo la strada, una dissolvenza in nero fa girar pagina e arrivare alla catastrofe finale.

Cosa ha portato a tutto questo orrore? Chi può mai parlare delle intermittenze del cuore giurando di capirne le ragioni? Eros e Tanatos, come sempre, la fanno da padroni.

Dumont ci lascia nel deserto della California a meditare, mentre il poliziotto della scena finale, in campo lunghissimo, telefona che mandino una pattuglia di rinforzo, che chiudano il passaggio agli alunni che stanno uscendo da scuola, che cavolo, dicono che non possono perché stanno testando automobilisti che guidano in stato di ebbrezza? Qui c’è uno che sembra passato al tritacarne!

L’identità, ecco, è quel che ci vuole, quella che “impedisce di essere la voce del sacro, dell’estasi, dell’illuminazione, dove l’Eros implode nel cervello”.

Perché è successo tutto quel che è successo dopo 110’ minuti di niente?

Bisogna riavvolgere il nastro per capire le cose della vita, ci accorgeremo che quel niente era tutto, e allora l’arte è lì a ricomporre un nuovo ordine, a trasgredire la realtà, a mostrarla in quadri di nuda bellezza.

Francia/Germania, 2003 durata 119’

regia di Bruno Dumont

con Katerina Golubëva, David Wissak

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